Romanizzare i barbari? Ci provarono già i liberali nel 1923, non andò bene

Guido Vitiello

Meglio puntare a cacciarli, sempre che si riesca

Nota a margine ritardataria alla querelle tra liberali sulla romanizzazione dei barbari (mozione Orsina) o sulla loro cacciata – con ipotesi, in caso contrario, di autoesilio in Papuasia (mozione Panebianco). Il lettore decida se il mio ritardo si debba misurare in giorni o in decenni, già che ho voluto ripescare un articolo del 26 maggio 1923 che la Stampa pubblicò con il titolo “Come collaborare (Intervista con un liberale piemontese)”. Più che un’intervista era un dialogo tra giolittiani, e la mia fonte suppone che i due anonimi interlocutori fossero Alfredo Frassati, direttore del quotidiano torinese (ancora per poco: lo stavano per raggiungere le premurose attenzioni degli squadristi), e lo stesso Giolitti. Chi ha flemma necessaria per perder tempo con cose di novantacinque anni fa, avrà anche buone riserve d’indolenza per non correre alle conclusioni che rendono inconcludente ogni dibattito: il problema qui non è lo spauracchio del fascismo che torna, il problema è cosa debbano fare i liberali davanti a una valanga che di liberale non ha nulla, e di illiberale tutto.

 

“Ella vuol sapere da me quale può essere l’atteggiamento del Partito liberale di fronte alla rivoluzione fascistica”, dice il nostro liberale piemontese. “Le rispondo molto semplicemente. Il Partito liberale è partito che si sostanzia di realtà. Come tale esso può deplorare – se vuole – che una rivoluzione sia avvenuta, ma non può nella propria azione prescindere da essa. Il problema dunque per il Partito liberale è oggi di vedere quali sono gli sbocchi di cotesta rivoluzione per dedurne la norma alla propria condotta”. O la rivoluzione resta tale, e segue fino in fondo il suo corso distruttore, o “rientra nella normalità per continuare come moto fecondo sprigionatore di energie nuove che avvivino quelle logorate dall’uso”. Per un liberale, specie dopo tanti disordini (e una guerra alle spalle) non dev’esserci dubbio: il liberalismo “rifugge da ogni scossa violenta e cerca di evitarla”. Certo, “una forza sprigionata non si arresta o si incanala di botto. Ciò che importa però per dedurne un giudizio ed una norma politica è che ci sia la volontà e la capacità di incanalarla”. E allora, la conclusione legittima non può che essere una: “Se cotesta volontà e cotesto sforzo di incanalare la rivoluzione ci sono, se per cotesta via soltanto si può evitare c’essa non abbia lo sbocco violento che mentre ne distruggerebbe ogni effetto sarebbe la rovina del paese, allora il Partito liberale deve lealmente secondare con la propria attiva collaborazione cotesto movimento. La rivoluzione per compire opera veramente fattiva ha bisogno di uomini periti in ogni ramo della amministrazione statale; viceversa, per un complesso di cause, cotesti uomini essa non ha. Basta essere stati a Roma pochi giorni soltanto per persuadersene”.

 

Insomma, i nuovi arrivati non possono fare a meno di riserve di complemento reclutate tra quelli che oggi (2018), vengono quotidianamente irrisi come “competenti”. Notava invece il nostro liberale che oggi (1923) è di moda tacciare di demagogia la politica finanziaria di Giolitti, dimenticando che per ottenere quei risultati egli dovette lavorare mesi, e vincere ostacoli da titano. Al contrario, “la rivoluzione fascista non ha opposizioni, tutto può osare e fare pur nel campo finanziario. Con tutto ciò anche qui i risultati sono ancora molto scarsi. Gli è che le forze non si improvvisano. Il che vuol dire che la collaborazione è necessità”. Era un appello a romanizzare i barbari, e sappiamo come andò a finire. Il guaio è che i barbari, allora come oggi, non hanno alcuna voglia di farsi romanizzare; i più sciocchi tra loro – e sono legione – non capiscono neppure di essere barbari; i più astuti, che invece lo capiscono, temono che vedendoli a braccetto con un romano lo capirebbero anche tutti gli altri: e se ne sbarazzano, per non rischiare di esser messi sotto tutela. E’ la fine che ha fatto, nel M5s, chiunque capisse qualcosa di alcunché, fin dai tempi dello scaricamento di Rodotà; ed è la fine che rischiano di fare i titubanti romani che Mattarella – sempre sia lodato – è riuscito a infilare in questa mala compagnia. Romanizzare i barbari è impossibile; forse è impossibile anche cacciarli. Ma tra due vie strettissime, e simmetricamente chimeriche, inseguo la chimera più onorevole.