Matteo Salvini (foto LaPresse)

“Sentenza politica”? A Salvini piacerebbe

Valerio Valentini

Il ministro fa il martire e ha un piano, ma il provvedimento stavolta è rigoroso

Roma. Che i leghisti adesso contestino, ostentando sbigottimento e rabbia, la decisione del tribunale di Genova, risponde in fondo al ruolo che si sono ritagliati in questa pièce tragicomica, grottesca come lo sono, sempre in Italia, le vicende in cui la giustizia s’intreccia alla politica. “E’ un non senso logico, oltreché giuridico”, attaccano. “E’ una roba che non sta in piedi”, ribadisce al Foglio Giulio Centemero, il tesoriere attuale del Carroccio. Tutto, insomma, secondo copione. Quello che però, pur nel tourbillon di sgangherate polemiche, va affermato, è che contestabile lo è senz’altro, il provvedimento di giovedì, come tutti, ma di certo non si tratta, come i leghisti dicono, di una “sentenza politica”. Semmai, di riflesso, politiche sono le analisi che se ne possono trarre, e che evidenziano come Matteo Salvini, furbissimo nel trasformare un partito decotto, nordista e federalista, in una macchina da consensi su scala nazionale, abilissimo – di quell’abilità che forse ad altri rottamatori è mancata – nel guidare una transizione complessa e contraddittoria senza mai farla degenerare in una traumatica guerra interna, non abbia poi saputo, o potuto, rompere fino in fondo la continuità – di cassa, e non solo – col vecchio apparato. Ed è proprio quella seppur minima, sbiadita continuità, che oggi rischia di diventare la pietra d’inciampo della sua corsa al potere. Sempre ammesso che d’inciampo si tratti, peraltro: sempre ammesso, cioè, che davvero la decisione del tribunale di Genova sia un colpo letale per la nuova Lega, e non invece l’ennesima occasione che il ministro dell’Interno si è abilmente costruito per legittimare la sua autorappresentazione di martire dei giusti colpito dai giudici proprio nel momento dell’apoteosi. Ma nessuno in queste ore, ed è bene chiarire anche questo, andrà davvero a prosciugare i conti del Carroccio, e anzi forse non succederà mai. E del resto: davvero i giudici genovesi si sono accaniti sulla Lega con astio e con malanimo? Evidentemente no.

 

Nel disporre il sequestro preventivo sui fondi del partito guidato ora da Salvini, il tribunale ha agito nel perfetto rispetto delle norme, oltreché della prassi: quando una sentenza di primo grado impone la confisca in seguito a un truffa, nell’attesa che si arrivi al pronunciamento definitivo della Cassazione i beni del condannato vengono, diciamo, congelati: per evitare che spariscano, che si disperdano, che insomma non possano poi essere recuperati ed eventualmente resi alla parte lesa, che nel caso specifico è il Parlamento. Semmai, l’implicita richiesta dei legali della Lega, era quella di adottare un sovrappiù di cautela, un tatto insomma tutt’altro che dovuto, proprio in virtù delle particolari contingenze. Ma i giudici genovesi – inflessibili nel loro rigore, ma non per questo tacciabili di malanimo – hanno chiarito: “Non solo non esiste alcuna norma che stabilisca ipotesi di immunità per i reati commessi dai dirigenti dei partiti politici, ma anzi esiste una precisa disposizione di legge che impone la confisca addirittura come obbligatoria nel caso in esame”. E la confisca, in questa storia, è stata appunto disposta: nel luglio scorso, quando il tribunale di Genova condannò in primo grado Umberto Bossi e Francesco Belsito , l’ex tesoriere, insieme ai tre ex revisori dei conti per aver presentato false rendicontazioni al Parlamento.

 

Ed è vero quel che ci dice Centemero, e cioè che “prima della riforma del 2013 i cosiddetti bilanci erano un puro adempimento formale”; sarà forse vero perfino, come aggiunge, “che se si andasse a spulciare i rendiconti degli altri partiti salterebbero fuori analoghe, se non peggiori, magagne”. Ma è pure innegabile che i bilanci della Lega Nord dell’epoca, almeno quelli stilati tra il 2008 e il 2010, erano particolarmente raffazzonati: “macroscopiche e numerosissime irregolarità contabili”, scrissero la scorsa estate i giudici. Ma le frodi compiute da Belsito sono anche a danno della Lega, dicono i leghisti. E si tratta di pochi spiccioli, aggiungono. Ma dimenticano di aggiungere che di quelle presunte ruberie si sta occupando il tribunale di Milano. A Genova si questiona su un altro aspetto: e cioè sul fatto che i soldi che il Parlamento concedeva alla Lega Nord erano basati su rendiconti pieni di irregolarità, che non sono solo quelle legate alle spese allegre di Belsito e alla famiglia Bossi, e che magari non sono neppure configurabili come reati. I 49 milioni – poco meno, in verità – nascono da lì. 

 

C’è poi la questione della continuità tra i due partiti, che Salvini e i suoi fedelissimi negano. “Siamo un’altra cosa, rispetto a quella Lega”, rivendicano. Il tribunale replica, sul punto, scrivendo che “il partito ha direttamente percepito le somme qualificate in sentenza come profitto del reato  in quanto oggettivamente confluite sui conti correnti e non può ora invocarsi l’estraneità del soggetto politico rispetto alla percezione delle somme confluite sui suoi conti e delle quali ha direttamente tratto un concreto e consistente vantaggio patrimoniale”. Tradotto, grosso modo, suona così: chi ci dice che dirigenti e candidati dell’epoca post Bossi non abbiano utilizzato una parte dei proventi di quelle rendicontazioni truffaldine per finanziarsi, ad esempio, le campagne elettorali?

 

“Accanimento”, insistono i leghisti. E lo fanno in riferimento al fatto che a causa del provvedimento disposto dal tribunale di Genova, anche le donazioni liberali di iscritti e simpatizzanti pervenute alla nuova Lega in anni recenti finiranno di fatto con l’essere confiscate. Obiezione, va riconosciuto, di sostanziale buonsenso, e che tuttavia decade di fronte alla sentenza della sezioni unite della Cassazione del gennaio del 2014 – cui infatti i giudici genovesi si rifanno, trovando una copertura giuridica indiscutibile – che stabilisce che “l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto in quanto il denaro deve solo equivalere all’importo che corrisponde al profitto del reato”. E tant’è.

 

Che poi davvero, come spiega Centemero, “noi siamo parte lesa, in questa vicenda”, pure questo lo si può credere. Non si può però non ribattere che di costituirsi parte civile, ottenendo così tutti i diritti e i vantaggi che in questo caso il processo concede, la Lega non ha voluto: o meglio lo ha fatto, per poi però tornare sui suoi passi. “Avrebbe significato inasprire il clima”, dicono i leghisti, accusare il vecchio capo che peraltro, all’epoca dei fatti, era più che altro in balìa del suo cerchio magico. E forse, maligna qualcuno, avrebbe anche significato arrivare allo scontro frontale con Belsito, che in più d’un’occasione ha lasciato intendere che, se volesse, lui di cose da raccontare ne avrebbe parecchie, di quell’epoca disgraziata.

 

Ma non è certo l’Apocalisse, per la Lega. Salvini anzi punta proprio a questo, ora: drammatizzare la vicenda, mostrarsi vittima della congiura. E’ nel suo stile – vedi il caso della Diciotti – oltreché nel suo interesse. Ma la vicenda è tutt’altro che chiusa. La Lega può ancora fare ricorso cautelare in Cassazione, contro il provvedimento disposto giovedì. “E lo faremo”, annuncia infatti Centemero. Senza contare che poi la sentenza da cui tutto nasce, la condanna in primo grado ai danni di Bossi e Belsito, è ancora al primo grado: e proprio nelle prossime settimane si arriverà all’appello. E se è vero che è impensabile, al momento, una sentenza d’assoluzione, è però possibile, forse perfino probabile, che i giudici non confermino la confisca. E tutta la polemica cadrebbe, compresa quella – interna al governo – che s’è aperta giovedì. A innescare le tensioni ci ha pensato Gianluigi Paragone, senatore del M5s: “Non è un problema per noi essere alleati di un partito condannato per truffa, a patto che però la Lega paghi i 49 milioni che deve pagare”. Laconico, in risposta, Centemero: “Paragone in passato fu direttore della Padania, ai tempi di Bossi. Quella Lega, e quelle vicende, lui le conosce bene”.

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