Giorgia Meloni e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La destra che riduce l'Italia a un caffè

Salvatore Merlo

C’è qualcosa di parodistico nel sovranismo di Meloni e Salvini che misura l’identità in base al frappuccino di Starbucks. Surrogati, flash, imitazioni retoriche. Ve lo immaginate Almirante che parla di tostatura e colonialismo?

Roma. Giorgia Meloni ha detto, all’incirca, che vanno fermati sul bagnasciuga, insomma il capo di Fratelli d’Italia si è espressa con la stessa seria drammaticità con la quale Mussolini nel suo ultimo discorso da Palazzo Venezia immaginava di fermare lo sbarco degli alleati sulle spiagge della Sicilia. “Mi chiedo come si faccia a preferire le loro bevande al nostro caffè espresso invidiato in tutto il mondo”, ha detto l’erede della Fiamma e del Movimento sociale. Anche l’ideologo di riferimento del sovranismo italiano, cioè Diego Fusaro, autore Einaudi, ha twittato. Accompagnando la fotografia di una bruschetta al pomodoro e di una birra Ichnusa, Fusaro ha scritto le seguenti parole: “E voi andate da Starbucks a bervi il caffè cosmopolita, pecoroni. Io mangio e bevo italico, sempre”. In fine Matteo Salvini, ovviamente, il grande capo del governo e interprete della fase politica, non ha fatto mancare il suo punto di vista e il suo giudizio: “Due ore di coda per un caffè da Starbucks? Ma nemmeno se mi pagano! Non ho parole…”, ha scritto su Facebook e Twitter, canali della comunicazione contemporanea e sovranista, benché siano – direbbe Fusaro – multinazionali americane e turbomondialiste.

 

 

  

  

Ecco. Ma davvero la difesa della cultura italiana passa dal rifiuto di una tazza di caffè americano servita da Starbucks a Piazza Cordusio? Non c’è forse qualcosa di parodistico nella difesa dell’identità racchiusa nella tostatura arabica? Dice Marcello Veneziani, malinconico: “La politica pop e social insegue queste piccole battaglie simboliche, si attacca in ogni versante a questi minimi like e dislike di pronto incasso. Non c’è nulla di male. Il problema, anzi il dramma, è che oltre queste battaglie che durano lo spazio di un caffè, non c’è altro. Il nulla. Solo surrogati, flash, parodie. E questo vale per i renziani come per i grillini, i residui berlusconiani, salviniani o meloniani”. D’altra parte è difficile immaginare Giorgio Almirante, o qualsiasi altra delle figure della destra italiana – l’aristocratico Tomaso Staiti di Cuddia – impegnato a misurarsi con una catena di caffetterie. “Impensabile”, dice Gennaro Malgieri, che fu direttore del Secolo d’Italia, il giornale dell’identità post missina.

 

Negli anni Settanta molti ragazzi di destra non bevevano la Coca-Cola, perché era il simbolo dell’imperialismo americano. “Io invece la bevevo”, ricorda Maurizio Gasparri, “queste trovate non mi hanno mai interessato. Bevevo la Coca-Cola, ma nei corsi di formazione del Msi, quando parlavo ai militanti più giovani, citavo quel famoso libro di Levinson che s’intitola ‘Vodka Cola’. E allora spiegavo come russi e americani si spartivano il mondo. Ai gesti simbolici ho sempre preferito l’analisi politica. Così oggi penso che Starbucks non vada demonizzato, ma vada imitato. Non è il segno della colonizzazione, ma spiega forse quanto non siamo stati capaci noi di creare una catena internazionale di caffetterie”. La politica contrapposta alla retorica, dice dunque Gasparri. Rappresentazione e pensiero facile, come un tweet, appunto, contrapposti all’analisi. E anche questo, chissà, segna una distanza dalla destra emarginata e puzzona, ma politica e densa di una volta, e quella strapotente ma deintellettualizzata di oggi.

 

“Quando eravamo ragazzi la Coca-Cola era l’emblema, l’incarnazione malvagia del liberalismo”, dice Malgieri. “E noi ovviamente polemizzavamo contro la ‘cocacolonizzazione’. Ma la questione è stata risolta da almeno un trentennio, diciamo. Adesso sentendo le scimmiottature mi viene quasi da ridere. E quindi se bevo un caffè americano mi sono fatto colonizzare? E’ una cosa fuori dal tempo, fuori dalla storia e persino fuori dal senso comune. Bevo caffè americano da una vita. Quando torno dagli Stati Uniti ho le valigie piene di caffè. E per questo dovrei sentirmi meno italiano? Ma vi sembra un’equazione logica? Ciascuno beve quello che gli pare e gli piace di più”, ride Malgieri. Poi però l’ex direttore del Secolo d’Italia mette su un tono basso: “Uno ormai si guarda in giro, osserva la politica, e davvero non sa più se deve ridere o sbuffare di noia”. Like e dislike di pronto incasso che durano lo spazio di un caffè, come dice Veneziani. Surrogati, flash, parodie, ripetizioni e semplificazioni estreme.

 

Così, alla fine, non si sa più bene se questa storia di Starbucks e della nuova destra di Salvini e Meloni, con i suoi risvolti grotteschi, arrivi al fondo della nuova politica sovranista – al nulla retorico – o se invece tutta questa faccenda sia soltanto una faccia della vacuità social cui si è ridotta la politica in genere. Di destra e di sinistra. “Ma la vacuità, o le forme ‘pop’ non rendono meno pericoloso o preoccupante un fenomeno di massa”, dice Sofia Ventura, politologa dell’Università di Bologna. “Quelli di Salvini sono richiami superficiali dal punto di vista intellettuale, ma sono profondissimi dal punto di vista delle reazioni che provocano. Starbucks è un facile feticcio da bruciare in piazza. E’ il caffè fatto dagli stranieri. Poi è pure un caffè fatto da una multinazionale. Insomma cade a pennello sulla retorica sovranista. Quindi è vero che si tratta di una costruzione mediatica, tutta lirica e persino banale. Ma crea un nemico. E ci sono masse di follower con la bava alla bocca pronte a dare mazzate”. E il problema è proprio questo. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.