Giovanni Tria (foto LaPresse)

Assedio a Tria

Valerio Valentini

Il nervosismo del M5s e della Lega coincide con un numero magico: 10 miliardi

Roma. A tal punto era stato scomposto, l’assalto, che a metà giornata si rende necessaria perfino la smentita. Imposta – anche se i grillini dicono “suggerita” – da Giuseppe Conte in persona, che ha ricevuto perfino la chiamata allarmata del diretto interessato. Ed ecco che allora “risulta infondata la notizia secondo cui il M5s avrebbe esercitato pressioni sul ministro Tria, anche in riferimento a sue possibili dimissioni”, spiegano ai cronisti i responsabili della comunicazione grillina. Ma la tensione era stata creata, eccome, sul responsabile dei conti di Via XX Settembre: fino al punto di vagheggiare, come ipotesi estrema, quella del veto sulla manovra. “O si fa il reddito di cittadinanza, nel Def, o per il governo ci saranno gravi conseguenze”, aveva minacciato, col piglio dei giorni migliori, Luigi Di Maio. E a molti dei suoi quello era parso un segnale chiaro, di una volontà di far tremare il terreno sotto la poltrona di Tria. Tanto più che poi, ieri mattina, sono arrivate anche le parole veementi di Stefano Buffagni, sottosegretario agli Affari regionali che segue però anche i dossier finanziari: “Tria deve rispettare il contratto e le forze politiche che lo supportano, deve ricordarsi che non è lì da solo”. 

 

Il tutto, per la sottaciuta goduria dei ministri leghisti, che ieri pomeriggio si scambiavano compiaciuti messaggi nelle loro chat: “Giancarlo ha colpito anche stavolta”.

 

Il riferimento, ovviamente, è a Giorgetti. E alla sua strategia ormai rodata: creare allarmismo e poi proporsi come colui che scongiura il disastro, lasciando gli alleati grillini ad agitarsi nel panico. A metà agosto lo stratega del Carroccio paventò il rischio della tempesta perfetta, dell’attacco all’Italia sui mercati finanziari. “E’ un modo per attivare i canali con la Bce e con qualche fondo d’investimento, che ci contatteranno per avere delle rassicurazioni”, spiegò in quei giorni Giorgetti ai suoi uomini. E così avvenne. Nel M5s entrarono in ansia, e vissero l’avvicinamento al pronunciamento di Fitch come la vigilia del giorno del giudizio. Ora, sulla manovra, stessa strategia. Prima fare la voce grossa, poi garantire a Tria piena fiducia: “Così è maturata quell’idea di sfiorare, e non sforare, il tre per cento”, dicono gli uomini di governo del Carroccio.

 

E così, l’ennesimo cambio di ruoli, in questa sbracata commedia degli equivoci grilloleghista: Salvini che si mette la cravatta, e lancia segnali di pace a Confindustria, e Di Maio che, sentendosi oscurato dall’istrionismo del rivale vicepremier, scalpita e si dimena, prospetta la crisi di governo se le sue esose richieste non dovessero trovare ascolto. “Se questa è la sua strategia, non si rivelerà vincente”, se la ridono ora i fedelissimi di Salvini, che la loro via maestra, di qui alla presentazione del Def, l’hanno già individuata: consapevoli che si può ottenere poco, stavolta, meglio puntare sulle misure che premiano una platea più ampia. Per questo la priorità sulle pensioni; per questo non saliranno sulle barricate se alla fine, come sembra, anziché estendere il regime forfettario a tutte le partite Iva fino a centomila euro si dovesse optare per una soluzione di compromesso: il 15 per cento fino ai 65 mila, e il 20 per cento fino ai centomila. “In un caso come nell’altro, cambieremmo la vita a un milione di liberi professionisti, quindi va bene così”. Al contrario, Di Maio sa che su questa manovra si gioca molto: la sua credibilità di leader, innanzitutto, e anche una parte della campagna elettorale in vista delle europee di maggio.

 

Nel frattempo, comunque, al ministero dell’Economia parlano di una manovra ancora tutta da definire quando alla presentazione ufficiale della manovra mancano ormai appena due settimane. “E’ un cambio di metodo”, spiegano però, più o meno all’unisono, leghisti e grillini. Che i ritardi li giustificano così: “Puntiamo a una manovra snella, essenziale, ma con molti allegati al bilancio settoriali, da approvare subito dopo”.

 

Sarà, ma il nervosismo grillino tradisce comunque la consapevolezza che i dieci miliardi di euro per il reddito di cittadinanza non ci sono al momento, e difficilmente salteranno fuori. E “va bene non attuarlo tutto subito”, si sfoga un parlamentare del M5s, “ma se diventa un flebile potenziamento del reddito d’inclusione e basta, allora non va bene più”. E se invece così fosse? La domanda viene lasciata cadere nel vuoto. 

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