Chi si ostina a non capire le radici di un governo populista non ha capito l'Italia
Gli elettori cambiano, la classe politica si autoconserva
Non sono un commentatore politico e non posso fare finta di esserlo. Nei giudizi in dettaglio sulla vita politica corrente spesso (come molti) mi sbaglio. Non credendo in nessun leader e in nessuno schieramento, mi sforzo di capire a chi momentaneamente si può concedere un po’ più di credibilità, in attesa di vedere se l’ha meritata.
Recentemente l’ho concessa prima a Monti (il signor preside della indisciplinata scuola-Italia) e poi a Renzi (il giovane sbruffone che servì a mandare a casa i soloni di Capalbio), ma i problemi del nostro paese hanno rivelato in tutti e due i casi di avere radici più robuste e profonde delle opposte capacità sia dell’uno che dell’altro. Monti non è stato in grado di tagliare la spesa pubblica e Renzi era troppo supponente e sbrigativo per applicarsi con maggiore serietà a realizzare le riforme del lavoro e della scuola, che gli hanno guadagnato più discredito che stima. L’individuo Gentiloni non mi dispiaceva, e affiancato al presidente melanconico Mattarella formava la coppia in apparenza più rassicurante del mondo, benché un po’ troppo rilassante e soporifera. Due brave persone che i problemi (occupazione, emigrazione e rapporti con l’Europa) sembravano più coprirli che affrontarli.
Così, arrivati alle elezioni del marzo scorso, non si sapeva chi votare e la tendenza, l’istinto all’astensionismo era arrivato in molti (e anche in me) a livelli forse senza precedenti. Alla fine, nelle ultime ore prima della chiusura dei seggi, ho deciso “da astensionista” di votare per i Cinque stelle: 1) perché ero stufo di sentirli parlare e basta, 2) perché erano la formazione politica più giovane in un’Italia che ha massacrato la vita di due o tre generazioni di giovani, 3) perché quando non si riesce a dare credito a chiunque abbia già governato, bisogna dare credito “sperimentalmente” a chi non ha ancora avuto modo di fare alcune cose buone che dice di voler fare: per esempio, snellire lo stato controllando le sue spese e insieme responsabilizzarlo cercando “in qualche modo” di rimetterlo in contatto con la società e la vita quotidiana della maggioranza dei cittadini (sempre meno politicizzata, sempre più politicamente disperata).
I commenti dei commentatori professionali che si leggono sulla stampa dopo la formazione del governo Cinque stelle-Lega si concentrano da mesi con meravigliosa tenacia sull’inaspettato, “ingiusto” e perfino antidemocratico risultato elettorale del 4 marzo. La più votata delle formazioni politiche, il Movimento cinque stelle, benché arrivato al 32 per cento, non riusciva a formare un governo: e dopo aver tentato senza esito un’alleanza con il Pd, che ha rifiutato per paura preferendo di fare opposizione, ha trovato un accordo con la Lega di Salvini. Quest’ultimo, dopo qualche esitazione, ha capito che non poteva bruciare la prima vera possibilità di governare il paese sacrificandola alla fedeltà dovuta a Berlusconi e alla Meloni.
La nuova Lega era ed è tuttora un partito in metamorfosi che ha bisogno di governare l’Italia e non solo il nord-est e il nord-ovest. Il suo leader ha capito di poter avere l’egemonia di una destra che nasce dalla difesa degli interessi degli italiani, contro le compatibilità e la sudditanza all’Unione europea, contro la destabilizzazione (in parte reale e in parte simbolica) dovuta all’inarrestabile ondata migratoria proveniente dall’Africa, enorme continente devastato prima dalla colonizzazione e poi dalla de-colonizzazione (e probabile preda futura della colonizzazione economica cinese).
Per la maggior parte dei commentatori politici, da destra a sinistra, il governo Di Maio-Salvini ha qualcosa di “inaccettabile”. Ha infatti, secondo i suoi critici, tutti i difetti della sinistra e della destra: è “populista” e “sovranista”, attacca le caste politiche e lo stato, attacca i poteri economico-finanziari e difende la nazione sbandierandone l’orgoglio contro gli euroburocrati e la logica della globalizzazione, contro l’immigrazione clandestina e incontrollata e contro il “buonismo” dell’accoglienza indiscriminata: chi abbraccia il valore dell’accoglienza non può permettersi di non saperla organizzare. Coloro che non hanno accettato come normale e rifiutano come antidemocratico sia il recente risultato elettorale che l’attuale governo, deducono da questa valutazione ogni quotidiano giudizio su ogni singola azione e singola parola di chi governa.
Il mio difetto è che nei giudizi politici non sono né così veloce né altrettanto passionale. Capisco poco la politica partititica (che mi ha sempre fatto sbadigliare) ma non riesco a non vedere o intuire i processi sociali e culturali che rispetto alla politica vanno a volte più lenti e a volte più veloci. C’è poco da fare, in Italia l’antipolitica populista è direttamente proporzionale all’incapacità di governare dimostrata da “tutti” i nostri politici nell’ultimo quarto di secolo (i precedenti lasciamoli agli storici).
Sovranità nazionale (sovranismo?) e popolo (populismo?) sono oggi problemi reali e non immaginari in molti paesi. Il mondo è unito e vincolato globalmente, ma è anche, nei periodi di crisi, più sensibile e consapevole circa la difesa delle identità locali e nazionali. Come sappiamo, nessuno si accorge della propria identità finché non viene disturbata, la scopre o finge di scoprirla quando identità diverse la fronteggiano. Le classi dirigenti, se si dedicano più a gestire le compatibilità internazionali che le esigenze elementari e primarie dei cittadini, è fatale che nei momenti di penuria e di pessimismo perdano consensi.
E’ quello che è avvenuto a marzo. Oggi i leader e le forze politiche che rappresentano nelle istituzioni le spinte “populiste” e “sovraniste”, precedentemente trascurate dalle élite governanti, sono certamente “impari” rispetto ai loro difficili compiti, per carenza di esperienze e di precise competenze. Ma questo accade ogni volta che il ceto politico è costretto a rinnovarsi perché gli elettori lo vogliono. In Italia l’elettorato, rispetto ad altri paesi europei, in fondo è rimasto a lungo conservatore, nonostante che il senso di appartenenza ideologica si fosse molto indebolito fin dagli anni Novanta. Ma la destra berlusconiana ha già fatto abbondantemente la sua parte sulla scena politica e non si riesce a immaginare che possa fare in futuro cose diverse dal passato. A sua volta la sinistra, da D’Alema a Prodi a Renzi, negli ultimi anni si è deteriorata e disgregata sempre più velocemente. Il fatto che il suo solo nuovo leader sia stato un uomo tanto energico quanto limitato come Renzi, dà la misura della sua crisi.
Si può anche partire da più lontano. Nessuno pare che sappia davvero come va e come andrà il mondo: né gli economisti, né i sociologi, né gli ingegneri informatici o genetici, né i moralisti e gli uomini di fede e neppure coloro che studiano l’ecoantropologia del nostro pianeta azzurro. Gli esseri umani, come ogni vivente, non vogliono morire, anche a costo di sparire come esseri umani. Se si tratta di sopravvivere, si è pronti a qualunque mutazione, perfino a quella che non ci farà più somigliare a quanto sappiamo dell’umano dai cinquemila anni della nostra storia. (1. continua)