Cena una volta il Partito democratico

Una sera insieme per farli conoscere o almeno riconoscere? L'appuntamento fissato da Carlo Calenda è saltato. E forse non è un male visto che il menù rischiava di andare di traverso ai commensali: il Pd serve ancora? Spunti

La cena dei Ferragnez del Pd

di Maurizio Crippa 

 

Dalla Cena delle beffe a Indovina chi viene a cena? fino alla Cena dei cretini, se c’è una cosa sui cui è fin troppo facile ironizzare, come una macchia di sugo sulla cravatta o il caffè versato sui pantaloni, sono gli inviti a cena che promettono delizie, oppure minacciano torte in faccia. E che, in ogni caso, richiederebbero tavole rotonde, molto rotonde, e di circonferenza maggiore di quanto il desco di Carlo Calenda possa, probabilmente, esibire. L’ironia è una salsa grassa che copre tutti i sapori, e il rischio dell’indistinto, in politica, si aggrava di molto. Basta niente e scende in campo uno Zingaretti, ma non quello degli arancini di Sicilia, a sparare una poveracciata, due spaghi in trattoria con “un operaio e uno studente”. Perché, un pensionato con la minima no? Se questo è il menù della sinistra, siamo a posto. Giusto per dire: se c’è da vedersi a cena, per decidere davvero qualcosa, a otto occhi, meglio non farlo sapere prima via Twitter. Rischia di venir fuori una festa di matrimonio come Fedez e Signora, con milioni di imbucati curiosi appiccicati col naso sul web, e nessuno che poi sappia dire se si è mangiato bene. Dalle tavolate gomito gomito col popolo della feste dell’Unità al pubblico ludibrio, il passo è greve. Indigesto. E il menù? In mezzo alla tavola rotonda (speriamo che sia rotonda, eh) ci vorrebbe uno di quegli aggeggi dei ristoranti cinesi, quelli che girano per poter accedere alle leccornie all you can eat. Senza spostarsi dalla propria posizione (siamo ancora alla fase di studio). Eddai, famo che ognuno porta ’na cosetta, così alla buona. Gentiloni una cofana di amatriciana, cucina del territorio, dacché è l’unico dei quattro ad aver assaggiato un po’ di paese reale. Minniti un cous-cous, a dimostrare che ci si può integrare, altro che prima i polentoni. E a rassicurare la sinistra che non tutto è affondato, après lui le déluge, nelle acque della Libia. Renzi, il dessert. Una diplomatica consiglieremmo, quell’arte dolce che tanto gli è mancata, così che ha disunito il disunibile, fino a portarlo dove ora sta: alla frutta. Perché è così, troppo grande il rischio di farsi ridere dietro, se si mette su una cenetta non avendo il coraggio di organizzare un congresso, o di chiudere direttamente il ristorante. E farsi ridere dietro, in politica, è il segno che non funziona. Che funzionano meglio le salamelle di Salvini. Ma una cena di un partito che non c’è, a casa di uno che nel Pd ci entra ed esce come da una porta girevole, e con tutta la “gente” che è lì pronta a fare il conto di quanto hai speso in vol-au-vent, intanto che il popolo tira la cinghia. Ecco, è una serata nata storta. Comunque, se possiamo un consiglio, forse questo: niente slow food, per favore. FATE PRESTO!

Una cena? Meglio ascoltare i perdenti

 di Mario Ricciardi

 

Una cena privata non è la sede più appropriata per concludere un accordo politico. A distanza di anni Tony Blair e Gordon Brown sono ancora perseguitati dalla memoria del “patto del Granita” (un ristorante per fighetti di Islington, mica un pub frequentato da militanti Old Labour). In Italia, poi, c’è il rischio che qualcuno evochi “il patto della crostata”, che fa un po’ troppo seconda Repubblica. Ciò detto, ormai gli inviti sono stati spediti – via Twitter – quindi la cena verosimilmente ci sarà. Visto che il padrone di casa è Carlo Calenda, possiamo immaginare che il menù politico sarà la proposta di un Fronte Repubblicano per sconfiggere i populisti alle prossime elezioni Europee. L’idea di fondo è che il Pd dovrebbe contribuire con i propri voti, e con quel che rimane della propria organizzazione, a dare spinta a un’alleanza in difesa dei valori Europei. Non c’è bisogno di essere un euroscettico per trovare la cosa poco entusiasmante. Se il Partito Democratico ha perso buona parte dei propri voti perché – Una cena privata non è la sede più appropriata per concludere un accordo politico. A distanza di anni Tony Blair e Gordon Brown sono ancora perseguitati dalla memoria del “patto del Granita” (un ristorante per fighetti di Islington, mica un pub frequentato da militanti Old Labour). In Italia, poi, c’è il rischio che qualcuno evochi “il patto della crostata”, che fa un po’ troppo seconda Repubblica. Ciò detto, ormai gli inviti sono stati spediti – via Twitter – quindi la cena verosimilmente ci sarà. Visto che il padrone di casa è Carlo Calenda, possiamo immaginare che il menù politico sarà la proposta di un Fronte Repubblicano per sconfiggere i populisti alle prossime elezioni Europee. L’idea di fondo è che il Pd dovrebbe contribuire con i propri voti, e con quel che rimane della propria organizzazione, a dare spinta a un’alleanza in difesa dei valori Europei. Non c’è bisogno di essere un euroscettico per trovare la cosa poco entusiasmante. Se il Partito Democratico ha perso buona parte dei propri voti perché – come ha mostrato la recente inchiesta di David Allegranti – non è stato in grado di interpretare i bisogni e i timori dell’elettorato più popolare, e della classe media spaventata dalla crisi, è difficile che un progetto politico di questo tipo possa aver successo. Una piattaforma Repubblicana sarebbe certamente centrista, finendo per alimentare ulteriormente la delusione di chi, come ci ha raccontato Allegranti, si è sentito abbandonato dal Partito Democratico. Peraltro colpisce che questa proposta venga fuori proprio in questi giorni, in cui cade il decennale del fallimento di Lehman Brothers e dello scoppio della crisi economica. Come ha sostenuto lo storico Adam Tooze nel suo libro appena pubblicato (Lo schianto 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori) sono proprio le conseguenze della crisi ad aver creato le condizioni per la svolta politica cui stiamo assistendo da qualche anno. La rivolta contro le elites non può essere fermata da un progetto politico elitario. Piuttosto che incontrarsi a casa Calenda, i commensali avrebbero fatto meglio a inaugurare un percorso di ascolto tra i “perdenti della globalizzazione” e tra coloro che temono di diventarlo. Per capire quali sono le aspettative e i timori degli ex elettori di sinistra che hanno scelto di “diventare leghisti” per mancanza di alternativa. – non è stato in grado di interpretare i bisogni e i timori dell’elettorato più popolare, e della classe media spaventata dalla crisi, è difficile che un progetto politico di questo tipo possa aver successo. Una piattaforma Repubblicana sarebbe certamente centrista, finendo per alimentare ulteriormente la delusione di chi, come ci ha raccontato Allegranti, si è sentito abbandonato dal Partito Democratico. Peraltro colpisce che questa proposta venga fuori proprio in questi giorni, in cui cade il decennale del fallimento di Lehman Brothers e dello scoppio della crisi economica. Come ha sostenuto lo storico Adam Tooze nel suo libro appena pubblicato (Lo schianto 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori) sono proprio le conseguenze della crisi ad aver creato le condizioni per la svolta politica cui stiamo assistendo da qualche anno. La rivolta contro le elites non può essere fermata da un progetto politico elitario. Piuttosto che incontrarsi a casa Calenda, i commensali avrebbero fatto meglio a inaugurare un percorso di ascolto tra i “perdenti della globalizzazione” e tra coloro che temono di diventarlo. Per capire quali sono le aspettative e i timori degli ex elettori di sinistra che hanno scelto di “diventare leghisti” per mancanza di alternativa.

I leader Pd come i topolini di Skinner

di Giuliano da Empoli 

 

Ci sono due vantaggi, nella fase tremenda che stiamo attraversando. Si capisce meglio la storia, come certe cose abbiano potuto accadere in passato e come potrebbero, un domani, ripetersi. E si capiscono meglio i caratteri: chi ce l’ha, chi non ce l’ha, chi vorrebbe darselo ma proprio non ce la fa. Al potere in Italia c’è il governo più estremista che la Repubblica abbia conosciuto nei settant’anni della sua storia, metodicamente impegnato a smantellarne i principi fondamentali, dall’appartenenza europea al rispetto dello stato di diritto, con un mix per ora irresistibile di fanatismo, di cinismo e di pura e semplice incoscienza. Di fronte a questa sfida, sarebbe stato legittimo aspettarsi che le differenze di opinione e di carattere che hanno separato fino a ieri i protagonisti dell’area riformista passassero in secondo piano. Invece è accaduto il contrario: i leader del Pd stanno facendo la fine dei topolini di Skinner, più si restringono le dimensioni della gabbia e più si accresce la loro animosità reciproca.

 

L’incontro tra i quattro personaggi che hanno segnato, con le loro idee e la loro personalità, una delle più intense stagioni di riforma della storia repubblicana, dovrebbe servire a questo: disinnescare la spirale di Skinner e gettare le basi di un percorso che sottragga il Partito Democratico all’irrilevanza e alla sottomissione ai Cinque Stelle. Si tratta di conciliare un’opposizione radicale al governo gialloverde con la ricostruzione di un’alternativa che sia sì tutta nuova, in termini di proposte, di comunicazione e di leadership, ma pur sempre restando fedele ai principi che costituiscono l’essenza della tradizione riformista, dai meriti e i bisogni fino all’orizzonte europeo.

 

Non è troppo tardi e non esiste alcuna fatalità. Salvini ha preso la Lega al 4 per cento, l’ha portata al 17 e oggi veleggia intorno al 32. La democrazia liquida del selfie presenta grandi rischi e qualche opportunità per chi abbia la capacità e il coraggio di afferrarle. Ma serve la volontà di essere all’altezza dei tempi.

Renzi e Gentiloni a tavola? Una notizia

di Alessandra Sardoni

 

Dato che, a dispetto di qualche sussurro delle ultime ore di cui non è ancora chiaro l’ordito, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni non si parlano dal giorno 5 di marzo quando, nel commentare con i giornalisti la sconfitta elettorale, l’allora segretario del Pd ne addebitò la responsabilità al premier, al ministro dell’Interno e al capo dello Stato, tutto fa pensare che più che il menu sarebbe il placement l’operazione più onerosa per il padrone di casa. Sempre che la cena si faccia davvero. La riservatezza promessa da Calenda insieme al rinvio, potrebbe in realtà utilmente celare l’impraticabilità del simposio. Perché gli invitati, Renzi, Gentiloni, Minniti, hanno accettato, ma già ridimensionando l’evento secondo la formula del “non è con una cena che si risolvono i problemi, ci vuole il congresso”. Quanto a Renzi prima ha detto di sì poi, dalla Cina, ha scritto che no. Il tutto mentre infuriava il prevedibile dibattito in rete sui gradi di distacco dal popolo della sinistra, dalla vita reale ecc ecc. Ma se tutto era noto, i rapporti lacerati fra le punte del precedente governo e Renzi, lo scarso appeal dello stile caminetto, il rischio di esacerbare gli animi escludendo da casa Calenda il segretario in carica Maurizio Martina e l’unico candidato alla successione Nicola Zingaretti o gli altri capi corrente Dario Franceschini e Andrea Orlando, perché avventurarsi nella convivialità? Sospendendo le interpretazioni tipo “si voleva nuocere alla manifestazione del 30 settembre”, il risultato, oltre alla controcena con operaio e imprenditore e insegnante, di Zingaretti ugualmente oggetto di sarcasmo, è comunque l’epifania delle contraddizioni: se i commensali sono gli uomini forti, i capi tribù che non hanno cariche di partito, vuol dire che a gestire il partito sono rimaste le figure deboli e che lo schema dei grandi azionisti rimasti fuori e tentati da un nuovo patto oligarchico è ancora lì mascherato dall’emergenza. Non un buon viatico per il congresso. Se invece l’invito di Calenda fosse solo un gesto di appeasement dato lo stato dei rapporti umani, sarebbe velleitario. L’unico con postura da uomo di mondo sembra essere Minniti abituato alle vere tribù per la sua pluriennale esperienza libica, l’altro giorno pre cena citava Totò a proposito dei rapporti con Renzi e delle tensioni pregresse “sono uno che ha fatto il militare a Cuneo”, diceva. Forse solo lui andrebbe davvero alla cena?

Il vostro dire sia sì sì, no no

di Giuseppe De Filippi 

 

Siccome la pigrizia regna finirà con l’accostamento giornalistico a un piatto, allora si consiglia ai 4, o meglio al padrone di casa, di scegliere pietanze dai nomi energizzanti, ricette di prospettiva. Per evitare roba come l’“accordo del brasato”, il “patto dello stufato”, l’“intesa dello sformato”. Ovviamente in tavola niente gauche caviar ma roba popolare, e la cucina calendiana in questo è notoriamente affidabile. Se ci fosse meno pigrizia noi proporremmo un richiamo risorgimentale, il “quadrato di VillaCalenda”, ma non passerà perché villa fa ricco e poi l’ex ministro abita in appartamento. Ma prima del nome serve appunto l’intesa. Cominciate da un primo esame, in modo semplice e logico, domandandovi su cosa siete d'accordo e soprattutto perché. Su lavoro, impresa, migranti, città, assetto del Pd, ditela tutta. Perché sapete cosa è mancato ai governi Renzi e Gentiloni? L’esplicitazione e la rivendicazione delle ragioni per cui stavate governando e delle strategie che perseguivate. La linea di Minniti sui migranti vi convinceva? Dite sì o no una volta per tutte, date a quella linea un nome e tenete duro. Il Jobs act il nome ce l’ha, ma ci credete davvero, nella buona e nella cattiva sorte? serve un sì o un no anche in questo caso. L'impresa e le città sono gli snodi della crescita, ma dite cosa volete anche a costo di cancellare (rottamare) un pezzo di tradizione ideologica. E nel partito, perché poi è di quello che parlerete, che volete? C'è ancora un candidabile nella banda dei 4 (ahi, un'altra definizione) oppure il quadrangolare guarda a un nome da sostenere? Se vi scindete, lo fate tutti insieme o la scissione taglierà anche il quartetto? no, scissione è parola da non pronunciare e neppure evocare. Ma allora serve qualcosa da dire a questo partito e non basta il pur encomiabile “mai coi 5 stelle”. Ragazzi c’è un centro moderato tradizionalmente forte in Italia e sta per papparselo interamente Matteo Salvini, c'è una sinistra tradizionale che forse vorrebbe qualche indicazione chiara su temi basici, di vita quotidiana, e nient’altro (lette le voci da Pisa di David Allegranti ieri?) e c’è un mondo, magari piccolo, liberale ed europeista da tenere dentro. Non si può fare a meno di nessuno dei tre schieramenti politici citati, sembra questo il senso, ed è correttissimo, con cui è formato il vostro quadrumvirato. Esplicitate un programma, abolite le ipocrisie (sui migranti e sulla sicurezza ce n'è a palate, le regole sulle graduatorie per le case popolari sono state consegnate sul Sinai a Mosè? No, quindi si possono cambiare). Ditelo che quei tre mondi politici li volete tenere tutti e scegliete un segretario. Esplicitare serve, anzi è tutto in questo momento, perché contro ci sono degli iper-espliciti e con quel trucco hanno scardinato l'assetto di potere colpendo dove le ipocrisie pubbliche avevano fatto velo. Tenere tutto significherà anche perdere qualcuno, opportunista o duro e puro che sia, ma per un Leu che va, arriveranno altri. Fate un programma pieno di grandi opere, investimenti, piani straordinari (su infrastrutture, reti e qualità dell'edilizia privata), rirottamate le auto, fate lavorare le imprese, buttate il codice appalti, fate guadagnare i lavoratori dipendenti (80 euro certo, ma anche accordi su produttività e secondo livello di contrattazione), provate a convincere i trentenni (gli unici liberi sul mercato elettorale) spiegando e rispiegando, dovete strillare da matti, come li stanno truffando su pensioni e lavoro.

Il menù che serve per la ricostruzione

di Sergio Scalpelli 

 

Se la cena alla quale Carlo Calenda ha invitato Marco Minniti, Paolo Gentiloni e Matteo Renzi sarà effettivamente propedeutica alla ricostruzione del Pd, lo vedremo. Certo è che conterà parecchio l’ispirazione del menù. Ora, appare evidente ai più, che l’unico tra i quattro che potrebbe sparigliare le carte e avere una certa presa, subito, su parte dell’opinione pubblica è Marco Minniti. Non sto a spiegare le ragioni, mi aspetto che l’entree siano bruschette con l’Nduja accompagnate da un Dattilo dell’ azienda agricola Ceraudo. Sarebbe sensato non dimenticare i pochissimi momenti di soddisfazione dei mesi scorsi, il più importante tra i quali è senz’altro la chiusura, lungo le direttrici tracciate da Calenda, della vertenza Ilva. Il pensiero corre ad un bel piatto di spaghetti con le cozze alla tarantina, sorseggiando Noi Tre, ottimo Brut rosé prodotto da Bruno Vespa (lasciare almeno un assaggio a Marco Bentivogli, che non c’entra col Pd, ma su Ilva è stato bravissimo ). Né va dimenticato che il primo importante segnale di fastidio verso le politiche assistenzialiste, neo centraliste e antimercato dei 5 stelle è arrivato proprio dal cuore del blocco sociale della Lega, il mitico Nordest. Secondo me un piatto come polenta e baccalà ci introduce bene al territorio che per primo ha fatto suonare il campanello d’allarme sulla inconciliabilità delle ricette economiche dei partner dell’attuale governo. Polenta e baccalà, dunque, accompagnate da Tai, rosso dei colli berici, dell’azienda agricola Pialli. Come chiudere? Ovviamente con un omaggio alla roccaforte del Pd, quella Milano, sempre più città globale che ancora il 4 marzo ha dato al PD il 28 per cento dei voti. Da tempo il panettone non è più un dolce stagionale ed è prodotto da diverse importanti pasticcerie artigianali, non milanesi. Suggeriremmo il panettone Oliveri di Arzignano, con un buon Cannellino di Frascati, così, per contribuire a ridurre il dualismo Milano – Roma, augurandoci di aver contribuito al rilancio di una buona ristorazione, popolare e di qualità e non alla dissipazione di una tradizione gastronomica, da rinnovare parecchio, ma con buoni ingredienti di base.

Gli scontri titanici di Matteo Renzi

 di Chicco Testa

  

Non so se si può parlare di un ritorno di Matteo Renzi. So che il fatto che l’ ex segretario del Pd faccia sentire sua voce è di per se una buona notizia. Ovviamente per un motivo, diciamo, di ordine generale. E per uno più specifico. Almeno a me è chiaro , e condivido Minopoli su questo punto al 100 per cento , che molti nel Pd e a lato del Pd non è che solo vogliono liberarsi di Renzi, ma piuttosto e soprattutto vogliono liberarsi dell’agenda Renzi, cioè del set di iniziative e programmi messi in campo dall’ultimo Governi a guida Pd. Comprese le innovazioni prodotte da Minniti nell’ultimo anno, purtroppo, non per colpa sua, tardivamente. Si leggono così frasi senza costrutto sulla fine della spinta propulsiva della globalizzazione (meglio i dazi di Trump?). Sul solidarismo senza se e senza ma, sulla democrazia interna che sembra la descrizione di rapporti sessuali complessi. Al tentativo di liquidare questa agenda concorrono in molti.

 

A destra e a sinistra. Fassina e Salvini uniti nella lotta con tutte le gradazioni intermedie, fra sovranismo e nazionalizzazioni, Stato pigliatutto, rigidità sindacali, ambientalismo della domenica mattina, giustizialismo di ritorno. Un perfetto, ma improbabile, ritorno al piccolo mondo antico. Come dice l’ autostoppista del bar intergalattico di Douglas Adam “ abbiamo un grande futuro alle nostre spalle”. Ma detto questo, come un vecchio zio, avrei qualche cosa da dire affettuosamente anche a Matteo Renzi che ho molto apprezzato nella sua azione di Governo. Il modo in cui Renzi si sta riproponendo nel dibattito pubblico, a prescindere dai suoi obbiettivi personali, mi convince assai poco. La cosa principale , lo dico subito, e che MR non sembra avere perso una certa tendenza a leggere il mondo come uno scontro titanico fra lui e tutto il resto. Ma senza prendersene tutte le responsabilità. Il tasso di ostilità attorno al Pd non ha mai raggiunto i livelli di questo momento. Assolutamente esagerati e senza giustificazione. Ma perché? E’ credibile sostenere che ciò sia avvenuto principalmente per responsabilità della minoranza interna e delle fake news? Francamente sono spiegazioni insufficienti e persino poco nobili. Ma coerenti con la lettura dell’uno contro tutti . Non sono certo un sostenitore dei caminetti e delle intese fra correnti e trovo la segreteria messa insieme da Martina un specie di mostriciattolo senza senso né direzione. Ma un conto sono i pasticci e un conto è la costruzione di un gruppo dirigente. Cosa che MR ha fatto molto poco e continua a non fare.

 

Nel giro di qualche mese è riuscito a chiudere praticamente ogni rapporto con Gentiloni, a raffreddarsi con Calenda e con Minniti . Il think thank di Giuliano da Empoli è sparito. Dice qualche cosa il fatto che non riesca a trovare un candidato alla segreteria del Pd? Che una brava e promettente Anna Ascani si preoccupi prima di tutto di smentire che Renzi l’ abbia indicata come possibile candidata alla segreteria? Che Delrio preferisca il privato e che altri una volta vicini segnino le distanze in modo netto? Anche la marcatura a uomo che Renzi esercita sui social network nei confronti di Salvini, Di Maio e altri , mi spiace dirlo, ma assomiglia spesso al risentimento di chi ha subito un goal che non ritiene legittimo (ma gli elettori, come l’ arbitro di Boskov, lo hanno fischiato) piuttosto che all’azione di un ex primo ministro che cerca a di far valere la sua autorevolezza. E , caro Matteo, non farti confondere dal tributo che un popolo, sempre più piccolo, ti rende alle feste dell’Unità. Piazze piene urne vuote . Tu li rassicuri con la tua presenza e loro rassicurano te con la loro . Fine. Anzi in questo modo ti inserisci in una ricerca identitaria che sembra l’oggetto principale del dibattito dei vari esponenti Pd. Ritrovare il nostro popolo. Che come mi insegni è invece liquido e, aggiungo io, tutt’altro che fedele. Dagli zoccoli duri son già stati puniti in molti. E invece avremmo bisogno di altro. Di leadership autorevoli e dotati di quel tanto di “gravitas” che non guasta. Non desiderosi di rivincite a breve , ma capaci di allargare l’orizzonte e raccogliere tutte le forze che soffrono visibilmente le chiusure, i sovranismi e i nazionalismi. Ben oltre i confini del Pd. Ma per fare questo occorre allargare, ascoltare tutte le voci critiche, essere inclusivi . Esercitare leadership. Aperta, critica e paziente. Mi risponderebbe Matteo Renzi che quando si smette di parlare di politica si parla del carattere. Del carattere no, ma della qualità dell’esercizio della leadership si deve parlare e molto. Oggi Renzi è sicuramente ancora il driver principale del consenso attorno al Pd, ma ne è anche il fattore limitante. Sta a lui risolvere questa contraddizione e se per fare questo debba anche modificare il carattere della sua leadership lo faccia senza esitazioni e con generosità.

 

Forse una cena servirà, se saprete ascoltarvi e fare tutti un passo indietro. Ma il paradosso sollevato da Giuliano da Empoli, “perché persone che la pensano più o meno allo stesso modo non riescono a costituire l’incipit di un gruppo dirigente autorevole?” è tanto evidente da non permettere scuse.

  Allargate l’invito a Bentivogli

di Carlo Cerami

 

“Come l’acqua traccia il suo corso secondo la natura dove scorre, così il comandante pianifica la sua tattica vittoriosa in rapporto al nemico che ha di fronte” (Sun Tzu). L’“intellettuale collettivo” (alla ricerca di una proposta politica anche senza ambire all’“egemonia culturale”) tende a cercare il Comandante in base alla sua tattica e non ad adeguare la tattica alle caratteristiche del Comandante stesso, come sovente avviene nelle organizzazioni in crisi. Pur in epoca avvilita dal personalismo (specie se truce e sgrammaticato) imperante, dunque, vale la pena unire le forze anziché dividere le debolezze. Del resto, al governo sono due espressioni del medesimo menù: populismo reazionario, declinato con revanchismo nazionalista e sovranista, e giustizialismo manicheo, condito da promesse assistenziali di sapore venezuelano. E quindi, tagliate le ali estremiste (una delle quali confonde le idee agli aspiranti Corbyn nostrani, e l’altra ai portatori di malcelati e precisi interessi, già rivoluzionari liberali), il campo politico da occupare non pare difficile da delimitare: il centrosinistra riformista, l’area cattolico-democratica, i tanti moderati senza cappotto politico preoccupati della deriva in atto. Gli italiani che vogliono misurarsi da europei e non da italioti con l’economia globalizzata, che desiderano opportunità e non solo protezione, dare diritti e pretendere doveri, produzione e non rendita parassitaria, lavoro e non assistenza, uguaglianza di opportunità ed equità distributiva e non decrescita e livellamento sociale, governo umanitario dei flussi migratori e non guerre dei poveri italiani contro i poveri del mondo, e così via, questi italiani se ne fregano delle diatribe personali che hanno inquinato il campo riformista nella scorsa legislatura. O meglio, non ne vogliono più sapere. Giuliano da Empoli, visto l’andazzo, ha buttato lì la domanda semplice: cari dirigenti riformisti, quelli che hanno un peso nella pubblica opinione, misurato sul campo e facilmente sommabile agli altri, non essendo rinvenibile con normali strumenti culturali la distanza politica tra voi sui temi fondamentali, non è che vi parlate e vi date un assetto politicamente omogeneo, robusto e credibile anziché litigare sulle ferite del recente passato?

 

Nella migliore tradizione politica italiana, che vide nel patto della crostata uno dei suoi momenti più alti (non lo dico per scherzo, si trattava della mia amata Bicamerale di D’Alema), Carlo Calenda, il più eterogeneo del gruppo, ha visto l’occasione della cena di pace. La tavola riconcilia, da noi. Le risposte sono tutte garbate, ma è un po’ come quando l’invito arriva dall’ospite sgradito: grazie, ma ho già un altro impegno; gioca la seconda squadra di Milano in Champions… ecc. Ora però, grazie alla visibilità della notizia, si viene misurati anche se si accetta cortesemente l’invito e si dimostra di sapere stare a tavola. La cena è diventata politica. “La più grande vittoria è quella che non richiede alcuna battaglia”, se basta una intesa, per giunta a tavola. Altrimenti sarà oblio. Calenda, aggiorni la data. E allarghi gli inviti a Bentivogli e Zoppas, per cominciare a fare sul serio.

E Zingaretti in trattoria con l’operaio

di Andrea Minuz

 

La sinistra riparte. Zingaretti andrà in una trattoria romana con un operaio, un imprenditore del Sud, “pezzi di società civile”. Stornelli, cacio & pepe, vino dei castelli. Calenda, Renzi, Minniti, Gentiloni, come nella migliore tradizione del nostro cinema d’interni: perché in un film italiano, quando il gioco si fa duro, ci si siede sempre a tavola. “Martedì a cena da me” (come ha scritto Calenda su Twitter) è un titolo perfetto. Veltroni apprezzerà. Meglio di “La cena per farli conoscere” (anche lì in quattro, alle prese con un’unione tutta da ricostruire); meglio di “Perfetti sconosciuti” (coi messaggi che arrivano su WhatsApp letti ad alta voce e quattro probabili nuovi partiti a fine serata); meglio della “Cena” di Ettore Scola, col cuoco comunista, deluso e incazzato, che ogni tanto invade gli ospiti con le sue sparate sulla lotta di classe (ma chi chiamare? Vissani? Chef Rubio? Cannavacciuolo?). Meglio della “Grande abbuffata” (da non rifare mai a casa). Come in ogni cena contano però anzitutto due cose: il posto assegnato a tavola e il menù. Sul primo, su cui si decideranno i destini della leadership del centro-sinistra, non ci pronunciamo anche perché non siamo mai stati a casa Calenda. Sul menù invece: evitare assolutamente ogni tipo di risotto, si entra paurosamente in zona D’Alema (occhio anche ai vini); niente biologico o “km zero”, si rischia un ragù di cinghiale della Cassia o un carpaccio di gabbiano; niente cena etnica o fusion, che poi i sovranisti chi li sente; niente cedimenti populisti, spaghettate aglio, olio e peperoncino o pizza in delivery, che il rider Foodora senza diritti è già simbolo della lotta alle élite e a ‘sto punto tanto valeva andare in trattoria con Zingaretti. Una “cena di vertice” (da non confondere mai con le “cene eleganti”) non può che essere una cena di pesce. Gentiloni porta spesso la moglie al porticciolo di Anzio, pare che il piatto preferito di Minniti sia il pesce spada dello Stretto cucinato alla “marinara”. Sembra perfetto. Dal pesce spada dello Stretto la conversazione scivola lentamente sui “porti aperti”, si trova una bella intesa su sbarchi e migranti, si brinda. Una cena di pesce per ripensare una sinistra liberale dalle fondamenta: Liberté, Égalité, Crudité. Ma soprattutto: niente food-porn, niente selfie a tavola e, mi raccomando, niente foto di Vasto coi filippini sullo sfondo.

La serietà di Carlo Calenda

di Sofia Ventura

 

Se vi è una cosa seria in questa mini-vicenda della cena a quattro (Calenda, Gentiloni, Minniti, Renzi), sono le intenzioni di Carlo Calenda, un marziano che ha incrociato le strade accidentate del Pd. Che non si esprime attraverso slogan e metafore da quinta elementare, confondendo le politiche da fare con soundbite da lanciare; che non aspetta di non poterne proprio più per dire quello che pensa, mentre si mette al servizio del paese, ma non della buona politica (che talvolta richiede anche il coraggio di dire che la Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca); che non ha l’esperienza del vecchio uomo di partito e sottile uomo di potere che prima di domandarsi se una cosa è giusta si domanda se serve. Calenda vorrebbe mettersi al servizio di un progetto politico perché è convinto che sia necessario e dice quello che pensa della politica che lo circonda. Un marziano, appunto. Addirittura rivela con stile e parole un’etica, argomenta rispettando la logica, ha un modo di esprimersi sincero che trasmette pathos. Un marziano aristotelico.

 

Ma su Marte forse difettano un po’ di realismo politico. Non si costruisce un progetto – che sia il rinnovamento di un partito o la fondazione di qualcosa di nuovo – con chi, in prima persona, o svolgendo ruoli importanti, ha già percorso e favorito strade che non hanno portato a nulla (o a un declino che pare irreversibile). Certo non lo si costruisce con chi è già stato partecipe di troppi errori mai davvero compresi e riconosciuti; perché ora dovrebbe portare visioni radicalmente nuove? I progetti politici camminano sulle gambe di chi li ha pensati. Non necessariamente una persona sola, anzi. Il pensiero solitario in politica è un pensiero povero, che difficilmente evolve, impara, si corregge. Ma se si vuole avere qualche speranza di successo, il pensiero condiviso richiede comunque un decisore finale e leader naturale e un idem sentire di chi lo condivide. Non è questo il caso. Qualcuno ha fatto ironia su questa cena parlando di “quattro amici al bar”. Beh, quattro amici al bar possono essere una forza più dirompente di quattro signori troppo diversi che davvero amici non possono essere.

 

E poi, non siamo ipocriti, uno dei commensali non è portato per il “lavoro di gruppo”. Matteo Renzi o fa il leader, o va in giro a fare conferenze e girare documentari su di sé con lo sfondo dell’arte fiorentina, comunque podio e palco devono essere suoi. Coinvolgerlo in qualunque cosa significa lavorare per lui, non per un progetto. E non credo che questa sia l’intenzione di Carlo Calenda.

Ma a che serve il congresso ora?

di Umberto Minopoli

 

Quattro portate per la cena. Prima: perché quei quattro? Ci sarebbe un solo filo: l’esperienza dei governi tra il 2013 e il 2018. Niente altro. Come antipasto lo ricorderei, per dire: rappresentiamo (per durata) il secondo governo, il primo della sinistra e il più produttivo (forse, perfino, più dei primi governi del centrosinistra degli anni 60). Non ci sentiamo degli irresponsabili? Per calcoli tattici e malintese convenienze elettorali, stiamo abbozzando alla demolizione di una ragguardevole esperienza riformista. Legittimiamo, col nostro imbarazzo e silenzio sui governi Renzi-Gentiloni, la tesi che questi stanno “cambiando”. E, invece, l’Italia sta regredendo, tornando al passato peggiore. Sta restaurando. E con i luoghi comuni, le paratie ideologiche, i fantasmi fossili delle cose più vecchie di destra e di sinistra. All’amico Da Empoli, che ci invita a unirci, andrebbe osservato: la storia ci punirà non se non ci mettiamo per un documento congressuale. Frivolezze. Ci punirà se consentiremo pure noi, con i nostri silenzi e i nostri imbarazzi e revisionismi, alla tesi scellerata che questo sia un governo di cambiamento. E se non sbarriamo il passo, invece, alla restaurazione. Seconda portata. Chiediamoci: all’Italia serve veramente, oggi (non quattro mesi fa, magari) un congresso del primo partito di opposizione? Ci sono tre scadenze sul tappeto, entro maggio 2019 (otto mesi, un batter d’occhio): la legge di bilancio, il confronto in Europa sulle riforme comunitarie, le elezioni europee (la prima vera verifica della forza dei populisti). Che facciamo? Ci concentriamo sul congresso? Per altro solo di conta tra noi (le primarie). E per stabilire (questa è l’unica domanda che sembra preoccupare i duellanti al congresso del Pd) se Renzi comanda ancora o no nella geografia del Pd? Che catastrofica perdita di tempo. Decidiamo (se vi piace chiamatelo congresso) una guida del Pd autorevole (simbolicamente e volutamente cercata tra i ministri del miglior governo della sinistra) e poi, però passiamo ad altro. Alle cose serie: condurre un’opposizione che strappi risultati (su Bilancio e dibattito sulle riforme europee) e sulle elezioni europee. Perché non tentare di farle diventare il vero laboratorio di un nuovo e diverso Pd: aperto a chi si oppone al populismo e si riconosce nelle famiglie della tradizione democratica europea (socialisti, popolari, liberali)? Terza portata. Mettiamoci d’accordo sulla premessa di tutto: cos’è il populismo? Un sintomo (dei discontentments, delle paure, dei disagi, degli sconfitti ecc) o la malattia? Una scena sociologica o una cosa nuova, epocale, inquietante. E non perché segnala problemi ma perché propone ricette, distruttive, disgreganti, reazionarie e le porta al governo. E non illudiamoci: non è vero che il populismo non è di destra o di sinistra o solo di destra. La vera novità è che esso mette insieme il peggio delle ricette, delle suggestioni, dei cascami culturali di ambedue le tradizioni politiche del secolo passato, la destra e la sinistra. Quarta portata. Se nuovo è il mostro, questo ircocervo di destra e di sinistra, nuovo deve essere il cavaliere che lo affronta. In questo ha senso la tesi di un nuovo partito dell’opposizione. Che non nasce per delibera congressuale. E non si salda col genericissimo evocativo. O con vecchie e, ormai, insipide paratie ideologiche (destra, sinistra, centro). Non copiamo Veltroni. Il millenarismo è diventato indicibile. Torniamo allo spirito del 2013: indicare (stavolta dall’opposizione) l’agenda delle cose da fare. Per l’Italia. Torniamo a fare delle riforme, possibili e concrete, la narrazione. Di chi non vuole morire populista né pedagogo che romanizza i populisti. “Riformisti di tutto il mondo (e di ogni colore o famiglia politica), unitevi”!

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