Manifesto per una terza via sui migranti
Non possiamo permetterci né di accogliere tutti, né di lasciare tutti fuori dalla porta. Servono una politica europea, una gestione organizzata dei flussi e una progressiva bonifica del bacino di immigrazione irregolare
L’Economist e Il Foglio nelle scorse settimane hanno posto con chiarezza il tema di una necessaria terza via rispetto alla gestione dei fenomeni migratori. Né tutti dentro né tutti fuori. Tutti dentro per la verità l’hanno detto in pochi, ma l’incertezza con cui la sinistra si è posta di fronte al problema – oltre che la sua tradizionale inclinazione umanitaria – ha facilitato la propaganda avversaria nell’appiccicarle lo stigma buonista dell’“accogliamoli tutti”.
Sappiamo bene che la destra nazional-populista ne ha approfittato, soffiando sul fuoco, alimentando un’ingiustificata idea di invasione, sdoganando sentimenti xenofobi e trasformando gli immigrati nel capro espiatorio su cui sfogare ogni tipo di frustrazione e risentimento.
Ma il centrosinistra ci ha messo del suo. La gestione dell’immigrazione attuata dai governi a guida Pd, per una buona parte della legislatura, ha contribuito a radicare l’idea di un fenomeno fuori controllo. Fuori controllo gli sbarchi – fino a che non è arrivato Minniti -, disomogenea ed emergenziale la distribuzione sui territori, discutibili e spesso censurabili le modalità d’accoglienza, inefficiente la politica dei rimpatri, inarrestabile la produzione di illegalità e degrado legata alla permanenza sul territorio nazionale di tutti coloro cui viene negato (o che perdono, a causa della Bossi-Fini) il permesso di soggiorno.
Minniti è arrivato tardi e ci ha messo una pezza. E’ stato il primo a capire che il procedere incontrollato degli sbarchi avrebbe avuto conseguenze nefaste sugli orientamenti dell’opinione pubblica, aperto la strada alla destra sovranista e persino messo in discussione gli equilibri democratici in Italia e in Europa. Ha quindi agito con la maggior decisione possibile sul controllo dei flussi – tanto che i numeri in drastica riduzione di cui si fa vanto Salvini sono da ricondurre senz’altro al suo operato. Ma è arrivato tardi, si è concentrato sugli sbarchi e non ha avuto il tempo per affrontare altri aspetti – di uguale rilevanza, a mio avviso – legati alla gestione a terra del fenomeno.
Ora la situazione è parecchio complicata, perché nel frattempo al Viminale si è insediato l’uomo che proprio sulla propaganda anti-immigrati ha costruito la sua fortuna politica. Non solo, l’argine ha ceduto, ha osservato Adriano Sofri: il risentimento anti-stranieri ha sfondato le paratie e allagato il cuore di milioni di italiani.
La linea di Salvini – tutti fuori – non è però né realmente realizzabile né utile al paese. La sola repressione degli ingressi illegali non azzererà nel lungo termine i flussi, né si vede alcun significativo cambiamento sul fronte dei rimpatri, là dove Salvini si era impegnato all’immediata espulsione dei 500 mila irregolari che vivono nel nostro paese: il suo braccio destro Giorgetti ha candidamente ammesso che sul punto “l’aveva sparata grossa” e lui stesso, e parlava dei soli tunisini, ha riconosciuto nei giorni scorsi che per rimpatriarli tutti “ci vorranno 80 anni”.
Il paradosso è questo, che il futuro del paese – la sostenibilità della sua economia, del suo welfare, del suo tenore di vita – è appeso all’immigrazione almeno quanto il suo assetto democratico è oggi minacciato dalle conseguenze di un’immigrazione non adeguatamente gestita
Quanto all’utilità, quand’anche fosse realizzata, bastano a smentirla le proiezioni demografiche che l’Istat ha recentemente pubblicato. Al 2065, tra poco meno di cinquant’anni, si prevede un saldo naturale negativo per 14,8 milioni di abitanti (pur immaginando una ripresa del tasso di natalità dall’attuale 1,34 a 1,59 figli per donna, in linea con i condivisibili auspici espressi a Vienna da Salvini), che arriverebbe a 17,3 milioni di individui – quasi un terzo dell’attuale popolazione – se non si considerassero saldi migratori sostenuti (l’Istat ne prevede per 8,1 milioni) a loro volta in grado di contribuire al saldo naturale per circa 2,5 milioni di unità. Nonostante questi, prevede l’Istat, la popolazione è destinata a calare di 6,5 milioni di individui, dagli attuali 60,6 milioni a 54,1. Dunque, di che parliamo?
Il paradosso è infatti questo, che il futuro del paese – la sostenibilità della sua economia, del suo welfare, del suo tenore di vita – è appeso all’immigrazione almeno quanto il suo assetto democratico è oggi minacciato dalle conseguenze di un’immigrazione non adeguatamente gestita.
Non possiamo permetterci né di accogliere tutti, né di lasciare tutti fuori dalla porta. Quindi?
Do qui per scontato ciò su cui tutti, almeno in Italia, paiono d’accordo, e che cioè serva una politica europea per l’immigrazione, a partire dalla gestione dei confini, con una redistribuzione dei carichi tra i paesi dell’Unione. Non sarà facile arrivarci, ma è necessario.
Ciò detto, la terza via - che io credo di possibile applicazione - passa da una gestione organizzata di flussi di immigrazione legale e da una progressiva bonifica del bacino di immigrazione irregolare che si trova oggi nel nostro paese.
Parto dall’inizio, dai flussi legali. La cosa che raramente si dice è che il boom degli arrivi irregolari si è avuto (anche) a causa della pressoché totale chiusura dei canali di ingresso legali. Questo ovviamente non vale per i profughi, per coloro cioè che fuggono da guerre e persecuzioni. Sappiamo però che questi rappresentano una minoranza di coloro che negli ultimi anni – muovendo soprattutto dai paesi dell’Africa sub-sahariana – si sono affidati ai trafficanti di uomini per raggiungere le coste italiane. I più sono i cosiddetti migranti economici, mossi dal desiderio di fuggire una condizione di miseria e di migliorare le proprie condizioni di vita - in una misura variabile tra il 60 e l’80 per cento. Non è realistico sostenere che in presenza di canali legali i flussi “spontanei” sarebbero azzerati, ma sarebbero certamente ridotti. I canali di ingresso legali, ancorché selettivi, tornerebbero ad essere per i migranti economici la strada principale per arrivare in Italia.
Del resto è stato così fino a poco tempo fa. Tra il 1998 e il 2009, in anni in cui centrosinistra e il centrodestra si sono alternati al governo del paese, si sono avuti ingressi regolari di migranti economici e regolarizzazioni per circa 3 milioni di unità. Si tratta di numeri molto superiori a quelli che si sono registrati negli anni più recenti (dal 2014 ad oggi si sono avuti circa 700 mila arrivi) e però – pur senza sottovalutare le fisiologiche difficoltà di integrazione di un così ampio numero di persone provenienti da paesi di diversa cultura, abitudini, fede religiosa, ecc. – nessuno parlava di “invasione”.
Poi, dal 1° gennaio 2009, il governo Berlusconi ha deciso di chiudere la porta ai migranti economici extracomunitari, e così è stato da lì in avanti, a prescindere dal colore degli esecutivi. C’era la crisi, l’occupazione era in calo, l’instabilità seguita alle Primavere arabe destava preoccupazione nell’opinione pubblica. Fatto sta che nessuno più ha avuto il coraggio di rivedere questa decisione, neppure quando i numeri della nostra economia sono tornati ad essere decisamente migliori. Allo stesso modo, nessun esecutivo di centrosinistra ha messo mano alla Bossi-Fini.
Questa scelta ha certamente contribuito a rafforzare i flussi irregolari, con ciò che ne è conseguito: i lucrosi traffici di esseri umani, le migliaia di morti lungo il tragitto (non solo in mare), la sensazione di un fenomeno non controllabile.
La stessa logica con cui è stato costruito il sistema dell’accoglienza ne è una conseguenza. Dopo aver costretto centinaia di migliaia di migranti economici a confondersi con i profughi e a formulare un’improbabile richiesta di protezione internazionale, abbiamo messo in piedi un complesso, farraginoso e costoso sistema di accoglienza “temporanea” – che si protrae in realtà per un anno e mezzo o due, durante i quali la maggior parte dei richiedenti asilo non fa assolutamente nulla – la cui unica finalità è arrivare a distinguere i rifugiati, meritevoli secondo il Trattato di Dublino delle diverse forme di protezione internazionale, dai migranti appunto economici.
In passato, neppure negli anni in cui in Italia erano entrati più di 200 mila stranieri, non era mai successo che si dovessero mobilitare le prefetture, i comuni, le organizzazioni del terzo settore (quelle buone e quelle che si sono infiltrate in cerca di lucro), che si dovessero riaprire le caserme, montare le tendopoli, spendere miliardi di euro, sempre in affanno, col risultato di trasferire ai cittadini un senso di inequivocabile emergenza e accreditare, così, la sindrome dell’”invasione”. Non s’era mai visto che ad immigrati in cerca di lavoro – costretti a farsi passare per richiedenti asilo – si garantissero poi per anni vitto e alloggio senza far nulla in cambio, salvo additarli come clandestini e profittatori, contribuendo così a gonfiare un risentimento che ha contagiato persino gli immigrati di più lunga data, cui nessuno ha invece mai dato alcun supporto.
Mai, soprattutto, era successo che si realizzasse una così efficiente “fabbrica della clandestinità”, in perenne funzione. Solo negli ultimi tre mesi, da giugno ad oggi, sono state emesse 13.200 sentenze di diniego della protezione internazionale. I rimpatri eseguiti nello stesso periodo sono stati 1.200. Significa che l’esercito degli irregolari – buttati fuori dai centri di accoglienza, privi di documenti, di alloggio e della possibilità di lavorare legalmente -, che già a fine 2017 si stimava di 490.000 unità (i famosi 500 mila che Salvini aveva promesso di “mettere su aereo” e rispedire a casa loro) si è ingrossata di 12 mila nuove reclute, con le conseguenze che sappiamo: degrado, lavoro nero, frequente accesso ad attività illegali o criminali. Basta andare a fare un giro intorno alla stazione di una qualsiasi città per farsene un’idea, e un’idea gli italiani se la sono certamente fatta. Il rifiuto degli stranieri, il successo della propaganda xenofoba della Lega, nascono in larga misura da qui.
Ingressi legali dunque, da collocare in parallelo ai corridoi umanitari realizzati per mettere in salvo i profughi di guerre e persecuzioni. Ingressi controllati, regolati, con una programmazione basata sugli effettivi bisogni demografici ed economici, e realizzati attraverso la riattivazione dei decreti flussi; oppure direttamente affidati all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, attraverso l’intermediazione di soggetti accreditati (agenzie per il lavoro, rappresentanze d’impresa) operanti anche nei paesi d’origine dei migranti. “In Italia c’è una forte domanda di lavoro immigrato”, ha sostenuto il Presidente dell’Inps nella sua ultima relazione, e diversi dati lo confermano : il 53 per cento delle imprese bresciane, per esempio, impiega lavoratori extracomunitari regolarmente assunti, con punte del 73 per cento nei settori metallurgico e siderurgico; il 71 per cento delle imprenditori si dichiara molto soddisfatto del loro lavoro.
In ogni caso una politica di ingressi selettiva, che richiede la capacità di decidere quanti e qualiimmigrati sia possibile e utile accogliere e integrare. Non è uno scandalo. Le politiche umanitarie si attuano attraverso interventi di sostegno allo sviluppo e un’aperta e generosa politica dell’asilo. Per il resto, proprio per contrastare l’illegalità, è necessario che le regole siano molto chiare. Si possono introdurre criteri di ammissione a punti, legati alle caratteristiche individuali dei candidati (competenze, profili professionali), così come si possono predeterminare quote di ingresso per i singoli paesi.
Gli sbarchi e gli ingressi illegali ne verrebbero certamente sgonfiati. Ma non azzerati. Resterebbe pertanto viva la necessità di esercitare un efficace controllo dei confini, di individuare gli aventi diritto alla protezione internazionale e di rimpatriare velocemente gli irregolari, con numeri però decisamente più contenuti. Servirebbero in ogni caso gli accordi bilaterali che il Governo italiano fatica a concludere con i paesi d’origine, ed è probabile che proprio l’istituzione di flussi regolari, eventualmente con quote riservate ai singoli paesi, ne faciliterebbe la sottoscrizione. A servizio dei richiedenti asilo, per l’evasione delle istanze di protezione, basterebbe una struttura molto più piccola, snella, meno costosa e molto più veloce.
Questo per quanto riguarda i nuovi arrivi. Il problema è il pregresso. Ora che gli sbarchi si sono ridotti (sempre che la tregua duri), il problema è lo stock di immigrati irregolari che si è andato cumulando nel nostro paese, e che continua a crescere. Il problema è l’illegalità diffusa che ne deriva, che produce degrado e alimenta l’odio nei confronti degli stranieri. Perché è matematico: uno straniero privo del permesso di soggiorno – perché gli è stato negato o perché l’ha perso dopo essere stato licenziato, come prevede la Bossi-Fini – ha solo due opzioni: o farsi sfruttare in una delle tante forme di lavoro nero, o dedicarsi ad attività illegali. E questo vedono i cittadini: degrado, mendicanti per strada, incuria e spaccio sotto casa.
Parliamo di oltre mezzo milione di invisibili, che il ministero dell’Interno non appare in grado di rimpatriare e che sono anzi destinati ad aumentare. Il ministro ha infatti annunciato una stretta sulla concessione dei permessi di soggiorno. L’imminente “decreto immigrazione” potrebbe cancellare la cosiddetta Protezione umanitaria, ovvero la forma più “leggera” di protezione, concessa ai richiedenti asilo cui non siano stati riconosciuti lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, regolati dal Trattato di Dublino, ma che per varie ragioni si ritiene non possano essere allontanati.
Coi rimpatri al palo – negli ultimi tre mesi ne sono stati eseguiti meno che negli ultimi mesi del governo Gentiloni – l’Ispi ha calcolato che la cancellazione della Protezione umanitaria porterebbe da 72 mila a 132 mila il numero dei nuovi “irregolari” da qui alla fine del 2019, che si andrebbero a sommare ai 490 mila che si stimano già presenti sul territorio nazionale. Questa è la vera emergenza, e il decreto – se ne sarà confermato il contenuto – è destinato ad aggravarla.
La terza via, a questo riguardo, richiede che s’imbocchi una strada del tutto diversa. Bisogna frenare la “fabbrica di clandestini” e prosciugare il vasto bacino di illegalità che è stato creato in questi anni.
Dei rimpatri s’è detto: occorre lavorare per moltiplicare gli accordi bilaterali finalizzati alle riammissioni. Ma non c’è da farsi grandi illusioni: i paesi d’origine tendenzialmente non rivogliono indietro i loro cittadini espatriati, tanto da ostacolarne anche solo le procedure di riconoscimento.
Frenare la produzione di clandestini significa dunque una sola cosa, rispetto alle richieste di protezione che ancora attendono una risposta e a quelle che perverranno nei prossimi anni: cambiare i criteri di ammissione. (segue nell’inserto IV)
La pretesa distinzione tra rifugiati e migranti economici ne è infatti la causa. Se è vero che non possiamo “accoglierli tutti” e che l’Italia ha però bisogno di migranti, purché utili alla sua demografia e alla sua economia, il criterio di ammissione non può fermarsi alla provenienza. Serve un criterio di merito, che riconosca e premi chi vuole davvero integrarsi nel nostro paese, lavorare onestamente e rispettarne le regole.
Serve cioè un permesso umanitario non già a maglie più larghe, come qualcuno propone, bensì condizionato a quanto, nel tempo intercorso tra la presentazione della loro istanza di soggiorno e il giudizio delle Commissioni territoriali, i richiedenti asilo abbiano concretamente, oggettivamente, dimostrato di volersi integrare – e questo aldilà dalla situazione dei loro paesi d’origine.
Sarebbe una rivoluzione per tutto il sistema di accoglienza. Oggi non esiste infatti alcun serio incentivo a costruire percorsi di formazione e di integrazione dei richiedenti asilo, né ad organizzarli né – per i migranti – a parteciparvi con impegno. La regola non concede infatti alcun beneficio a chi lo faccia. Il richiedente asilo che impara l’italiano, che partecipa alle attività di volontariato e persino trova un lavoro non ha alcuna possibilità in più di ottenere il permesso di soggiorno rispetto a quello che passa le sue giornate ciondolando per la città. Al netto delle situazioni palesemente anomale (tipo Caserta), nel giudizio delle Commissioni territoriali conta solo la provenienza.
Si spiega così il fatto che le esperienze virtuose, in cui si sono messi in piedi progetti formativi o di volontariato, siano una minoranza, collocate a macchia di leopardo e in grado di realizzare un coinvolgimento dei richiedenti asilo assolutamente parziale e discontinuo.
Condizionare il permesso umanitario ad una “comprovata volontà di integrazione” significa rivoltare come un calzino il sistema di accoglienza, dargli una finalità, delle regole, degli standard a cui attenersi. Significa dare ai richiedenti asilo un obiettivo: imparate bene l’italiano, studiate la nostra cultura, rispettate le regole della nostra società, partecipate ai programmi di volontariato, datevi da fare per trovare un lavoro, o quantomeno per iniziare un tirocinio – e avrete il diritto a restare legalmente nel nostro paese. I molti soldi che oggi vengono spesi per un’accoglienza “inutile” verrebbero a quel punto dedicati a corsi di lingua intensivi, a progetti di orientamento e di formazione professionale, investiti per produrre integrazione.
Questa è la prima cosa da fare. La richiedono innanzitutto ragioni di sicurezza, di ripristino della legalità nei nostri territori. E’ possibile che Salvini lo capisca?
Ingressi legali, da collocare in parallelo ai corridoi umanitari. Ingressi controllati, regolati, con una programmazione basata sugli effettivi bisogni demografici ed economici, e realizzati attraverso la riattivazione dei decreti flussi; oppure direttamente affidati all’incontro tra domanda e offerta di lavoro
Ma ancora non basta. Ci sono i 500 mila e più irregolari accumulati in questi anni, le loro esistenze illegali che non possono che generare altra illegalità. E’ lo stagno da prosciugare. Come? In passato, l’abbiamo detto, tanto i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra vararono corpose sanatorie – per oltre un milione di immigrati in poco più di dieci anni. Ma erano altri tempi ed era un’altra immigrazione. Oggi credo che l’unica strada praticabile sia una regolarizzazione su base individuale, fondata sulla medesima “comprovata volontà di integrazione”. Significa che gli stessi percorsi educativi – studio della lingua italiana fino alla certificazione A2, della cultura italiana e dell’educazione civica – di volontariato e di formazione professionale, devono essere proposti agli “irregolari” che aspirano a rientrare nella legalità (che per chi ha un impiego in nero ciò potrebbe avvenire a fronte della disponibilità all’assunzione regolare da parte di un datore di lavoro-sponsor).
Non potrà essere fatto in blocco, bisognerà pianificare questo processo nell’arco di alcuni anni, ma da qui bisogna passare. Dobbiamo riuscire a separare chi vuole lavorare onestamente da chi non ha intenzione di farlo, offrire una chance di integrazione ai primi e espellere gli altri.
Non saranno pochi quelli che rifiuteranno di partecipare al percorso, o che a metà lo abbandoneranno, o che non raggiungeranno i requisiti previsti. Per questi “irregolari a titolo definitivo”, che saranno comunque molti meno di oggi, dovrà esserci il rimpatrio – resta quindi l’urgenza di concludere altri accordi di riammissione - e, in attesa, la permanenza in CIE gestiti dallo Stato – io sostengo da organici militari – e non più da privati.
Sarebbe un costo in più, si potrebbe obiettare. Vero, ma qual è il costo del degrado, dell’illegalità e della mancanza di sicurezza? Una spesa che produce integrazione va considerata a tutti gli effetti un investimento.
E in ogni caso, la terza via ne propone un parziale recupero: i costi sostenuti dallo Stato per l’accoglienza e la formazione, dei richiedenti asilo come di coloro cui è data in questo modo la possibilità di regolarizzare il proprio status, dovranno essere rimborsati da ciascuno di loro, nella misura del 50 per cento, nei cinque anni successivi alla concessione del permesso di soggiorno.
In sintesi: apertura di canali di ingresso legali orientati alle necessità del mercato del lavoro; gestione europea dei confini; accordi con i paesi d’origine per l’esecuzione dei rimpatri; investimento in politiche di formazione linguistica, culturale e professionale; ammissione (o regolarizzazione su base individuale) subordinata a “comprovata volontà di integrazione”. Una terza via esiste. Punta a tenere insieme principi umanitari, legalità, sicurezza e interessi economico-demografici del nostro paese. Non è una passeggiata, ma è l’unico modo per provarci seriamente.