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Attenti, il populismo crescerà ancora

Annalisa Chirico

L'economia è in ripresa, ma ampie fasce di popolazione manifestano ancora un malessere che ha radici economiche e sociali. E nessun New Deal è all'orizzonte. Trump, Salvini, la trincea di Macron in Europa. Intervista al politologo Ian Bremmer

"Il populismo, nel breve periodo, è destinato a crescere”. Dieci del mattino, il politologo Ian Bremmer s’infila in taxi in una trafficata Manhattan e risponde al telefono per una conversazione in esclusiva con il Foglio. “Ho osservato la pagina Facebook del vostro ministro dell’Interno Matteo Salvini: esistono evidenti analogie con il modo compulsivo e diretto con cui Donald Trump utilizza Twitter”. Docente alla New York University e presidente di Eurasia Group, Bremmer ha pubblicato un saggio in cui contrappone “Noi vs. Loro”, il popolo e l’establishment, la faglia sociale che ha decretato la fortuna dei populisti. “Che Salvini denunci la presunta invasione africana o Trump minacci d’innalzare il Muro al confine con il Messico, il risultato non cambia: sono promesse destinate a rimanere tali. Tuttavia ciò non li rende più deboli: le classi lavoratrici e medie, stanche di aspettare che l’establishment risolva i loro problemi, hanno deciso di passare all’azione politica”.

 

Secondo Bremmer, nel decimo anniversario della crisi finanziaria, le ragioni dell’inarrestabile ascesa del populismo sono ancora valide. “Dagli Stati Uniti al Canada, passando per l’Europa, l’economia è in ripresa, la recessione alle spalle, la crescita a livello globale viaggia intorno al 4 per cento, eppure ampie fasce della popolazione – in particolare, the middle and working class – manifestano un malessere che ha radici economiche, sociali, migratorie e tecnologiche. Non si scorge un governo capace di affrontare questi nodi in modo sistematico, nessun New Deal è all’orizzonte. Uno scenario siffatto, con tassi d’interesse in aumento e crescita potenziale in calo, lascia presagire un’avanzata delle forze populiste”.

 

A proposito di New Deal, lo storico Francis Fukuyama ha affermato che esiste un “populismo positivo”, dipende dai leader, e ha menzionato, a titolo di esempio, il piano di Franklin Delano Roosevelt. “FDR è stato un leader ben più carismatico e capace di Trump, tuttavia se fosse al governo nel 2018 riscuoterebbe difficilmente un successo paragonabile. Egli è riuscito nel suo intento perché veniva dalla Grande depressione: quando intervieni sulle macerie di un cataclisma o di una guerra, i partiti sono meglio disposti ad accantonare le differenze per assumere decisioni importanti come l’impiego di enormi risorse pubbliche. Oggigiorno, che governi Obama o Trump, la capacità politica di implementare progetti così impegnativi è assente. Trump ha tentato, invano, di lanciare un piano per le infrastrutture, nessuno l’ha appoggiato”.

 

In Italia “Questioni sociali e migratorie sono separate solo all’apparenza. Io ritengo che il primo problema italiano sia rappresentato dall’elevato tasso di disoccupazione: la cosiddetta Gig economy e il progresso tecnologico rendono i lavoratori meno qualificati più vulnerabili e insicuri”

In Italia il cleavage legato alla gestione dei confini è all’origine dell’impetuosa crescita leghista. “Questioni sociali e migratorie sono separate solo all’apparenza. Io ritengo che il primo problema italiano sia rappresentato dall’elevato tasso di disoccupazione: la cosiddetta Gig economy e il progresso tecnologico mangialavoro rendono i lavoratori meno qualificati più vulnerabili e insicuri, non a caso il M5s invoca il reddito di cittadinanza. Anche in questo campo l’immigrazione gioca un ruolo decisivo perché, se il governo non si prende cura di te, diventi meno incline ad accettare l’arrivo di persone che non ti somigliano, anzi sono diverse da te per nascita, storia e cultura. Politici come Salvini si fanno portavoce di questo disagio, esattamente come il segretario di stato statunitense Mike Pompeo che annuncia il taglio di un terzo dell’accoglienza per i rifugiati fissando il tetto massimo a 30 mila nel 2019. Immigrazione e opportunità economiche sono strettamente connesse. In Germania, a dispetto della buona performance economica, la maggior parte dei lavoratori ritiene che il governo sottragga risorse ai loro bisogni per destinarle all’accoglienza. Ciò alimenta una forma di recriminazione culturale, carburante per il voto anti establishment. Se il governo rinvia i problemi anziché affrontarli, la frustrazione lievita e i cittadini, giunti al decimo anniversario della crisi finanziaria, si domandano se i governanti abbiano tratto qualche lezione”.

 

La globalizzazione ha determinato un doppio effetto: in Asia e in parti dell’Africa e dell’America Latina ha strappato alla povertà quasi un miliardo di persone; nei paesi industrializzati ha provocato lo “sfarinamento” della classe media. A suo avviso, professore, i partiti liberaldemocratici hanno sottovalutato le conseguenze della crisi? “Assolutamente sì, i liberaldemocratici hanno trascurato i drammatici cambiamenti in atto sul piano demografico. Dallo spettro politico che attraversa Stati Uniti, Canada ed Europa, emergono due enormi questioni: economia e politiche sociali. Globalizzazione e globalismo spingevano le forze politiche ad abbracciare un sistema di frontiere aperte, misure sociali progressiste e laissez-faire secondo l’ideologia conservatrice. L’élite era favorevole a questo modello di cui massimi interpreti sono stati Bill Clinton e Barack Obama. Costoro però non si sono accorti che la porzione elitaria di riferimento rappresentava l’un percento della popolazione mentre le masse domandavano politiche redistributive, maggiore protezione e confini chiusi. I partiti di centrosinistra non l’hanno compreso”.

 

E’ politicamente scorretto affermare che esiste un limite alla capacità di accoglienza di un paese? “Sì, per taluni è scorretto non meno che prendere atto della realtà economica fondata su costi e benefici. Faccio un esempio: se hai automatizzato alcune fasi del ciclo produttivo e non necessiti più di forza lavoro da assumere, segnatamente di quella scarsamente qualificata, non ti spieghi perché il tuo paese continui a spendere soldi pubblici in accoglienza e aiuti umanitari. In Germania il governo ha giustificato all’opinione pubblica l’ingresso dei siriani a fronte di supposte opportunità economiche, poi è venuto fuori che le persone accolte erano sprovviste delle competenze richieste, eppure rappresentavano un costo reale per i contribuenti tedeschi. Mi piace pensare che americani, italiani, tedeschi, in generale i cittadini dei paesi più ricchi del mondo, avvertano su di sé la responsabilità di fare di più non solo per i propri connazionali ma anche per chi vive in paesi svantaggiati. Purtroppo oggigiorno il pensiero dominante si declina all’incirca così: non vogliamo doverci prendere cura degli altri. Le persone sono sempre meno interessate a parlare del resto del mondo, che si tratti della gestione dell’immigrazione o della stabilizzazione di regioni distanti come l’Afghanistan. Lo slogan vincente è America first o, nel vostro caso, Italia first”.

 

Il Time ha dedicato una copertina al vicepremier Salvini che respinge pubblicamente l’idea di Italexit: “Intendiamo cambiare le cose da dentro”, ha affermato. “Io non credo che esista un piano B per l’uscita dell’Italia dall’euro. A mio avviso, Salvini mira piuttosto a diventare la forza politica predominante all’interno dell’Unione europea. Egli vuole porsi a capo dei populisti d’Europa e conquistare la guida del Parlamento europeo, poi del governo italiano. Il suo schema di alleanze con il partito ungherese del primo ministro Orbán, i francesi del Front national e i diversi raggruppamenti euroscettici intende spostare l’asse del Partito popolare europeo a destra. Non va dimenticato che Salvini deve gestire una grave inchiesta per frode che coinvolge il suo partito; concordo con Fukuyama sul fatto che egli sia un leader opportunista, non mi sembra in grado di fornire soluzioni di lungo periodo”.

 

“Trump è ossessionato dalla questione migratoria messicana sebbene i numeri siano in calo. Salvini punta il dito contro l’invasione africana: non importa se vero o no, la gente è arrabbiata contro il sistema che non ha migliorato la sua vita, slogan semplici e soluzioni semplicistiche hanno presa”

Da luglio 2017 gli sbarchi nel nostro paese sono calati di quasi l’80 percento: l’emergenza non esiste. “Esiste un gap tra realtà e percezione. Accade pure da noi: Trump è ossessionato dalla questione migratoria messicana sebbene i numeri siano in calo e si registrino invece flussi considerevoli da Guatemala, America latina e centrale. That’s really a non-issue. Salvini punta il dito contro l’invasione africana: non importa se vero o no, la gente è arrabbiata contro il sistema che non ha migliorato la sua vita, slogan semplici e soluzioni semplicistiche hanno presa”.

 

L’Ue che destina sei miliardi alla Turchia del sultano Erdogan riserva pochi spiccioli all’Africa. E’ ipotizzabile un Piano Marshall a sud del Mediterraneo? “La Turchia ha lo status di candidato all’adesione all’Ue, vanta relazioni economiche e politiche consolidate, tutti gli europei ne sono consapevoli. L’Africa invece è un mosaico di realtà variegate, ciascuna con un passato coloniale ed esperienze specifiche. Angela Merkel ed Emmanuel Macron si recano in missione, incontrano i leader locali, ma agiscono in ordine sparso, ognuno per sé. Gli unici soggetti in grado di interfacciarsi con l’Africa intera, vale a dire con un continente così complesso e vasto per dimensioni, sono Stati uniti e Cina: i primi si sono rifiutati, i cinesi invece hanno abbracciato tale opportunità elaborando una strategia autonoma, dissimile dal piano Marshall. L’approccio è bilaterale, one-to-one, non c’è spazio per il multilateralismo”.

 

Agli inizi di settembre nella Grande sala del Popolo di Pechino, al cospetto di oltre cinquanta capi di stato e di governo africani, il presidente a vita Xi Jinping ha promesso finanziamenti per sessanta miliardi di dollari, tra prestiti e investimenti in infrastrutture. “Il futuro africano si svilupperà intorno agli investimenti diretti cinesi. La Cina impone i propri modelli politici ed economici, incentrati su un capitalismo di stato d’impronta autoritaria, che si discostano dal Washington consensus, non impediscono la crescita e non si accompagnano all’apertura del mercato nazionale. Dopo aver sostenuto negli ultimi venticinque anni che i cinesi avrebbero dovuto imitare le istituzioni occidentali, pena il fallimento, oggi va riconosciuto che essi hanno ideato un modello alternativo, fattibile e in buona salute. Attraverso progetti come il ‘One Belt, One Road’, Pechino mira non già a diventare the best America ma a imporsi come superpotenza economica e tecnologica. Un’eventuale vittoria cinese nella sfida dell’intelligenza artificiale decreterà la fine della liberaldemocrazia come modello predominante su scala globale”.

 

Tornando al Vecchio continente, le elezioni del Parlamento di Strasburgo si terranno a maggio: se appare chiara la strategia sovranista, non s’intravvede invece il leader della coalizione antipopulista. Macron è la figura giusta? “Il presidente francese sta affrontando il più grave calo di popolarità dall’inizio del mandato. Ha avviato una retromarcia da alcuni provvedimenti cardine del suo programma, dalle riforme costituzionali a quelle economiche. In questa fase, l’inquilino dell’Eliseo resta la voce antipopulista più autorevole in Europa ma, considerata l’oggettiva debolezza, la sua esposizione avvantaggia Salvini”.

 

In un “mondo G-zero”, senza leadership, secondo la celebre definizione concepita dallo stesso Bremmer, oggigiorno l’unico principio guida sembra essere il risentimento popolare. Il suo ultimo saggio, professore, parla apertamente di “fallimento del globalismo”: è l’ammissione di una sconfitta culturale prima ancora che politica? “La premessa è che non potremmo augurarci di vivere in un’epoca migliore di quella contemporanea. Tuttavia, attraversiamo una fase di recessione geopolitica che ha a che fare non solo con il populismo ma anche con l’ascesa cinese che sfugge ai nostri schemi tradizionali. Dev’essere chiaro che, seppure domani un nuovo presidente s’insediasse alla Casa bianca, nessuno sarebbe in grado di restaurare la pax americana. La recessione geopolitica è esacerbata dall’assenza di un soggetto disposto o capace di rimpiazzare l’antico ruolo svolto per secoli dagli Usa, la società appare perciò più instabile e meno resiliente che in passato”.

 

Il modello di società aperta è destinato a soccombere? “Nient’affatto, si è indebolito ma non è defunto. Resta l’unico in grado di procurare benessere economico e pace sociale, va perciò rilanciato rimediando agli effetti negativi della globalizzazione”.

 

La debolezza dell’opposizione all’ondata populista è nociva per la qualità democratica? “Non c’è dubbio, in qualche misura i nostri due paesi affrontano una situazione analoga. In America non è ben chiaro chi e quanti siano gli anti Trump. Con un’opposizione frammentata è più complicato aggregare le persone in un progetto alternativo. Voi ne sapete qualcosa”.

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