Una sinistra vincente deve portare dalla sua parte un pezzo del M5s
Una forza politica che si trova al 18 per cento, dice Cuperlo, ha bisogno di alleati e la strada per il futuro è solo una
Cercasi opposizione? In parte, anche se giorni fa su questo giornale il direttore dava conto di una risposta ai pastrocchi del governo tutt’altro che floscia. Insegnanti, medici, la piazza milanese piena a fine agosto e persino quei cartelli, “welcome”, all’apparenza fuori sincrono col senso comune. Poi è vero che su tutto domina un Pd ostaggio delle dispute, ma in molti confidiamo che la piazza di domenica segni per la sinistra un punto di svolta. Scrivo sinistra e il termine meriterebbe più scavo. Perché riassumerlo nel partito maggiore cancella parte del mondo a cui dovremmo parlare e che oggi sta altrove. E siccome piove sul bagnato le ultime zingarate a botte di cene, scioglimenti, digiuni, somigliano alla parabola sul vestito nuovo dell’imperatore con la nudità in vetrina. Aggiungo, sarà per l’età, che quella preghiera ripetuta, “smettetela di litigare…unità…unità” mi pare conferma del disarmo critico di chi confonde conflitto per baruffa o limpidezza per ammuina. Si vada invece a una chiarezza risolutiva ma lo si faccia dicendo una buona volta cosa è fallito: il progetto? una linea? una o più leadership? Si provi così a ridare senso a un partito cosciente degli errori compiuti dentro casa, nel Paese, in Europa. Meno di questo e la sconfitta non muoverà al pianto ma al ridicolo e per quanto poco possiamo rappresentare quella deriva la sinistra italiana non la merita. Resta il nodo: una opposizione è forte quando diviene perno di un’alternativa credibile. Per riuscirci servono buone idee in rottura col prima assieme a una mappa di alleanze in grado di raccogliere il consenso che ti converte in maggioranza.
Ora, se muoviamo da qui ne derivano alcune conseguenze. Una investe il giudizio sulle due forze “vincenti” il 4 marzo. Sul passato è vano tornare. Dopo il voto la strada non era mettersi al carro del partito più votato. Si trattava di chiedere conto delle scelte future e lasciar affiorare le contraddizioni che in quel movimento albergano. Sì è imboccata l’altra via. Mettere in fila quanto si doveva deplorare, dai vaccini al caos su dossier delicati. Si è sommata qualche perla di stoltezza, dai condizionatori d’aria all’allunaggio, e si è restituito lo sfregio via streaming di cinque anni prima. Ma è su un punto diverso che vorrei tornare perché si tratta di un buco nella lettura di ciò che abbiamo alle spalle e soprattutto davanti. Riguarda la sovrapposizione dei due marchi, Lega e 5 Stelle. L’idea che tolti nome e simbolo siano l’identica cosa: una destra ostile ai principi della convivenza civile. Lo trovo un giudizio malfatto e accettandolo si rischia un cozzo con la realtà. Dirlo non significa assolvere Di Maio e i suoi dalle responsabilità già enormi cumulate dopo il battesimo del potere. Vuol dire che quelle forze hanno radice e matrice differenti e alla sinistra spetterebbe fissare una rotta adeguata. Allora, per capirci. La Lega non è da tempo un movimento autonomista con un radicamento confinato. Salvini ne ha cambiato natura dando vita a un partito nazionalista, di destra estrema sul piano delle politiche securitarie e anti-migratorie. Il suo alleato in Europa è il premier ungherese, un mezzo fascista camuffato da paladino dei principi cristiani e che sotto quell’ombrello limita la libertà di stampa, l’autonomia delle università, l’indipendenza della magistratura. Che per la sinistra questo oggi sia il nemico a me pare certo. Ma veniamo ai 5 Stelle. Al contrario della Lega non sono un movimento nazionalista, e di questi tempi la cosa fa differenza come dimostra il voto a Strasburgo sulla censura di Budapest. Per le stesse utopie, distanti anni luce da quel che pensiamo in molti, loro somigliano più a un movimento di impronta “rivoluzionaria” e leggerlo non strappi un sorriso. Sono rivoluzionari nel senso di recuperare sotto il timbro della rete (in questo Casaleggio senior è stato davvero ideologo) la distinzione classica tra legalità e legittimità. Come tutti i movimenti rivoluzionari tendono alla contrapposizione dei due principi e nel segno del primato della volontà generale – mica per scherzo la piattaforma domestica l’hanno battezzata Rousseau – teorizzano il primato del potere costituente (la legittimazione) su quello costituito (la legalità). Per dire, abrogare i vitalizi, cioè un diritto acquisito, sul piano della legalità non si può fare ma non conta perché a pesare è il fatto che quella norma è illegittima e la volontà generale (sic) di sopprimerla ha prevalenza sul resto. E' un terreno per definizione scivoloso e d’altra parte su quel nesso si sono riempiti scaffali compreso l’omonimo titolo di Schmitt sulle sorti di Weimar.
Era il 1932. Si aggiunga che nelle frasi visionarie del Casaleggio junior sulla fine prossima della democrazia rappresentativa a vantaggio di una partecipazione filtrata dalla rete dove la volontà generale può fare a meno dei parlamenti si coglie la pericolosità dell’impianto. Il punto è che un movimento sorto dal “Vaffa” di dieci anni fa non ha seguito se non marginalmente quelle premesse preferendo accasarsi nelle istituzioni sino a entrare da qualche tempo nelle stanze ovattate del comando. Il che ha reso questa forza un ibrido capace di catturare nelle urne il consenso di alcuni milioni di elettori provenienti da sinistra, ma proseguendo sul doppio binario dell’annuncio incipiente di un’inedita democrazia diretta e, insieme, l’impiego a lottizzare posti e trattare coi leghisti il miglior modo di campare (faccia testo il recente verbo pugilistico del portavoce di palazzo Chigi). Il punto è che hanno appreso la lezione e non cadranno nell’errore di impancarsi su mega-riforme aggredendo tutto ciò che non si mette a servizio, dai professori ai sindacati. Cercheranno consenso, almeno nel metter mano a riforme non più dipinte come epocali. Detto ciò la sintesi qual è? Che la sinistra dovrebbe fare ogni fatica per evitare il disastro peggiore: subire il trasformarsi del contratto di governo in una alleanza stabile tra Lega e 5 Stelle con l’offerta della prima coalizione radicale, di destra e di massa piantata nel cuore dell’Occidente dopo il ‘900. Allora, per chiudere, equiparare le due forze è oggi un errore di analisi. Noi dobbiamo rompere quel fronte. Dobbiamo indicare il pericolo vero nella destra che Salvini incarna. Non dobbiamo ignorare che dentro 5 Stelle vive un certo numero di scombinati e che la loro idea di sorpasso della rappresentanza sia insana. Ma dobbiamo anche operare, nella migliore tradizione, a che quel patrimonio di un terzo di elettori (fosse pure ridotto a un quarto) si ancori al molo delle regole e degli istituti della sola democrazia esistente, quella liberale e partecipata. Anche per capire se le contraddizioni che dovessero sorgere al loro interno potrebbero spingere parte di quel movimento a una prospettiva diversa, pure in ragione di una politica di alleanze che una forza al 18 per cento ha il dovere di porsi. Insomma mai come ora oltre al testo serve il contesto, una lettura di dove siamo, almeno se dopo un certo tempo di vacanza da una realtà segnata dalla peggiore sconfitta di sempre ci poniamo la domanda fondamentale: ma noi come possiamo tornare a vincere?