La Puglia “federalista” di Emiliano, convitato scomodo per Pd e Lega
Il governatore, sempre meno amato nel suo partito, vuole chiedere più poteri allo stato centrale
Roma. Gli altri (cioè il Pd) dicono A; lui, che pure è del Pd, dice B. Gli altri criticano, lui loda (e viceversa). E questo è niente: Michele Emiliano, presidente della regione Puglia (in carica, ma ha già detto che si ricandiderà nel 2020), uomo in teoria di partito e in pratica un po’ meno, da un lato plaude alla manovra economica dei gialloverdi (l’avrebbe fatta anche lui così, ha detto, perché a suo avviso è manovra “di sinistra”), ma dall’altra, pur sbandierando il vessillo dell’autonomia della Puglia (progetto approvato in nuce l’estate scorsa dalla sua giunta), rischia di diventare pericoloso compagno di viaggio per i leghisti che dell’autonomia hanno fatto un punto distintivo (non tutti sono Luca Zaia).
E insomma Emiliano, da un lato, si prepara a non lasciare sgombro il campo del congresso pd (il futuro è incerto, ma quest’estate diceva: presenteremo un candidato), e dall’altro vuol farsi più governativo dei governativi, ma la Puglia appunto non è il Veneto, e i modi e i motivi per cui la regione di Emiliano vuol farsi più indipendente non ricalcano esattamente la road map che a suo tempo si è snodata tra Verona, Treviso e piazza San Marco. E però i fatti sono fatti: l’ha detto per tempo, lui, presidente di regione, ex sindaco di Bari, già magistrato, che sua ferma intenzione è chiedere più poteri allo stato centrale, e in luglio, nel momento in cui la giunta dava il via libera all’iniziativa del governatore “per avviare le trattative con il governo centrale” c’era chi si immaginava con sgomento un futuro di casi Tap e di casi Xylella al cubo. Per non dire di chi, tra i pugliesi burloni, mentre la Gazzetta del Mezzogiorno ospitava un serissimo dibattito tra favorevoli e contrari al progetto Emiliano, si divertiva sui social a immaginare gli effetti collaterali della possibile sbornia autonomistica, con disfide micro-campanilistiche tra molfettesi e biscegliesi, e tra fan delle orecchiette e fan delle friselle, e con dubbi insolubili sugli elementi fondamentali della futura bandiera della “Apulia indipendente”, con tanti saluti al tricolore che pur sempre regna nel tacco dello stivale. E, gira che ti rigira, non si sa se Emiliano sia più scomodo per il Pd o per il governo che così tanto dispiace al Pd – ma non a lui, uno che nel marzo scorso spingeva per il dialogo-alleanza Pd-M5s e che in generale si è sempre distinto per non avversione verso i Cinque stelle. Tanto che l’ex ministro dello Sviluppo Carlo Calenda è sbottato su Twitter, dopo che il governatore della Puglia, all’indomani della manifestazione pd del 30 settembre a cui non ha partecipato, aveva lanciato online la domanda, forse retorica forse no: “Chi avrebbe le palle di cacciarmi dal Pd?”. “Michele, fossi il segretario è la prima cosa che farei”, gli aveva risposto Calenda. E così motivava, l’ex ministro:“ Hai passato gli ultimi anni ad accusare i nostri governi di qualsiasi nefandezza con insulti vergognosi. Fai politica per un partito. E’ una questione di rispetto per se stessi. Se non lo hai tu lo deve avere il Pd”.
L’ultima puntata
Ed è solo l’ultima puntata, questa, della lunga telenovela “Emiliano contro il mondo dem”, e non soltanto perché il governatore pugliese, già candidato al congresso pd nel 2017, si era presentato in lizza al grido di “Matteo (Renzi), sarò il tuo peggior nemico”, ma perché il governatore medesimo non perde occasione di sottolineare che lui è lì, però considera il Pd un partito di banchieri, finanzieri e potenti. “Il Pd non può difendere interessi lobbistici”, ha detto qualche giorno fa, parlando del Def vagolante sulla testa dell’opposizione: “Il Pd deve tornare a essere un partito di popolo. C’è da chiedersi come sia possibile che nel passato la sinistra ufficiale non sia riuscita a fare manovre del genere. Probabilmente ha pensato che la manovra sugli 80 euro fosse sufficiente”. Ma allora perché ci resti, nel Pd, gli chiedono? E la risposta è sempre “devo provare a farlo smettere di essere un partito che difende le lobby finanziarie”. E sarà anche questione interna, ma diventa esterna quando il governatore della Puglia passa all’endorsement: “…credo che una manovra che cura la povertà e restituisce attraverso l’allentamento della pressione fiscale la propensione all’investimento delle imprese sia una manovra che prova, pur prendendo dei rischi, a rimettere in moto l’economia del Paese uccisa dal salva Italia di Monti… capisco la gioia dei giovani esponenti del M5s che hanno imposto anche alla Lega questa manovra economica di cambiamento…”. E però neanche è vero che nel mondo di Emiliano la Lega (comunque definita coacervo “di vecchie volpi e di marpioni”) sia tutta da buttare. Sull’autonomia, infatti, con il lato Lega dei gialloverdi, Emiliano si appresta a dialogare, pur “sperando”, dichiarava mesi fa al Fatto quotidiano, “che la Lega non si comporti come il mio partito, che si è preso paura delle idee e delle energie dei governatori locali e ha cercato in tutti i modi di contenerli”. Ma il problema è prima di tutto di metodo: ancora è vivo il ricordo, infatti, dell’Emiliano che, nel pieno dell’estate, su Facebook, invocava, sul Tap, l’intervento del pasionario grillino Alessandro Di Battista (dopo che sull’Ilva, in giugno, Emiliano aveva trovato punti di contatti con il Luigi Di Maio ministro dello Sviluppo, anche se poi il feeling si è affievolito): “Ho bisogno dell’aiuto di Alessandro Di Battista”, aveva scritto il governatore. “Vorrei incontrarlo. Parlargli. Trovare una strategia comune. Abbiamo idee diverse, è vero, ma tra lasciare il mondo come sta e trovare un posto dove il gasdotto fa meno danni, secondo me è meglio unire gli sforzi per spostarlo più a nord…”. E l’immagine della Puglia futura si colorava d’incognita: federalista, sì, ma chissà come.