Recensire i pretendenti alla segreteria Pd
Al momento è questione di lessico, a partire dal nome della cosa (corrente? futura mozione? gruppo d’appoggio?)
Roma. Il tempo in realtà non stringe (non si sa neanche di preciso quando sarà il congresso del Pd), ma le iniziative si moltiplicano come fosse questione di ore. Si muovono sulla scena i pretendenti veri alla carica di segretario e quelli che sembrano pretendenti ma non lo sono, e muovendosi fanno crescere i dubbi: a che gioco stanno giocando tutti?, si domandano gli esegeti di mosse dem (ieri ci si è messa pure l’intervista di Romano Prodi al Corriere della Sera, in cui l’ex premier dice: “Renzi decida se fare un passo avanti o uno indietro”). E dunque l’ottobre che non può essere rosso ma che si vorrebbe non fosse solo gialloverde si apre sui proclami speranzosi nel partito d’opposizione che vuole ripartire, ma rischia a ogni angolo le false partenze (vedi cena proposta da Carlo Calenda e affossata tra le polemiche nel giro di un giorno). E le parole sono importanti, direbbe il Nanni Moretti che non la mandò a dire ai “dirigenti” con cui a suo avviso non si poteva vincere, ma che cosa ci sia davvero dietro alle parole è presto per dirlo.
Tuttavia al momento è questione di lessico, a partire dal nome della cosa (corrente? futura mozione? gruppo d’appoggio?): “Piazza grande”, ha chiamato Nicola Zingaretti la sua creatura congressuale con kermesse in programma per il 13 e 14 ottobre (sottotitolo: “Il domani appartiene a chi ha il coraggio di inventarlo”), ove per “grande” si intende anche “aperta” agli amministratori locali e ai compagni nuovi e vecchi (motivo per cui l’iniziativa zingarettiana è vista bene dai fan di un nuovo Ulivo e non così bene da chi pensa che l’attesa di ogni possibile figliol prodigo sia da evitare). Primo punto di partenza, “l’ora basta” lanciato nell’arena dal governatore del Lazio: “Ora basta. Possiamo continuare a lamentarci, dividerci, isolarci fino alla disillusione e all’irrilevanza, oppure decidere di guardare all’avvenire come al territorio della speranza, della solidarietà, delle opportunità per tutti”). Secondo punto di partenza, come si legge nell’appello online di Zingaretti, il “proverbio pellerossa “che dice: ‘Non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, lo abbiamo ricevuto in prestito dai nostri figli. Ed è a loro che dovremo restituirlo’”.
“Harambee”, ha chiamato invece il suo evento-gruppo di pressione interna il senatore (già renziano critico) Matteo Richetti, colui che ha appena ufficializzato la propria candidatura in teoria non renziana ma indipendente (i renziani, sempre in teoria, sono ancora in cerca di candidato) ma che da mesi, con l’intento di far superare alle truppe democratiche demotivate il “trauma” del 4 marzo, gira al grido di “harambee”, appunto (“tutti insieme”, parola di incitamento che gli autisti di bus kenyoti finiti nel fango dicono ai passeggeri quando soltanto scendendo e mettendosi a spingere possono far ripartire la vettura).
Richetti vuole rimettere in moto il Pd a partire “dai giovani che non ci filano”, ha detto a La7, annunciando un viaggio non litigioso (“spero che tanti si uniscano, Renzi e Delrio sanno del lavoro che sto facendo”), e il lessico precede e segue l’intento (“diversamente”, è la parola d’ordine di Richetti: “Proporrò che tutti i processi di selezione della classe dirigente siano aperti: primarie dall’ultimo circolo all’ultimo municipio. Sono stanco di girare l’Italia e vedere i notabili che si fanno i pacchetti di tessere e poi decidono della vita del partito”). Il Pd non è morto, ha detto al Corriere il Richetti che, al momento dell’avvio-campagna, si è sentito chiedere “ma che sei matto?”, “ma dobbiamo recuperare passione e credibilità e solo una nuova classe dirigente può provarci”. Poi c’è l’eterno problema: che fare con la sinistra-sinistra (fuoriuscita, persa, da intercettare). Ed ecco che viene in soccorso l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, alla testa dei “laburisti dem” (oggi riuniti a Roma per il lancio della piattaforma programmatica). “Uguaglianza, lavoro e democrazia”, sono le parole chiave (e d’antan) di Damiano, che dice di aver avvertito Zingaretti, Piero Fassino e Andrea Orlando. Per ora il suo è “un contributo”, poi chissà. Risuonano intanto il concetto “ascensore sociale fermo” e l’allarme per la sinistra che è “pronta a diminuire le tutele dei lavoratori e a favorire la regressione dello Stato all’interno delle sue società partecipate”.