Chi è Guido Guidesi, scuola Giorgetti
Cresciuto col mito del Senatùr, svezzato dall’attuale vice di Salvini. Un ritratto del braccio destro dello stratega leghista
Se è vero, come i suoi colleghi di partito dicono, che ne è “l’allievo”, di certo dal suo mentore ha imparato l’arte sottile – e sempre più deprezzata, nell’epoca dell’egotismo da selfie applicato alla politica – della discrezione. E infatti in pochi sanno che tutte le mattine, tra le sette e mezza e le otto del mattino, Guido Guidesi attraversa piazza Colonna e varca il portone di Palazzo Chigi. “Presenza praticamente fissa”, confermano i funzionari. Poi sale al primo piano, entra nell’ufficio di Giancarlo Giorgetti, che di solito è già operativo, e insieme al sottosegretario alla presidenza del Consiglio discute di quella che, nel gergo un po’ burocratico che i due condividono, viene chiamata la “programmazione quotidiana”: impegni, scadenze, rogne da sbrigare, dentro e fuori l’Aula di Montecitorio. Dove però Guidesi, pur avendo lì il suo scranno, passa in realtà poco tempo, ché la sua poltrona più usata ormai è l’altra, quella su cui trascorre buona parte della sua nuova vita: al secondo piano della galleria Alberto Sordi, lato nord, al 19 di Largo Chigi, sull’altra sponda di via del Corso. “Il fatto è che Giorgetti aveva capito che Riccardo Fraccaro è una delle poche teste pensanti del giro dei Cinque stelle, e quindi a marcarlo stretto ci ha messo l’uomo più fidato che aveva”, racconta un deputato della Lega. In verità la scelta finale l’ha presa Matteo Salvini, come sempre. Ha afferrato il telefono nel pomeriggio tumultuoso del dodici di giugno, un paio d’ore prima dell’avvio del consiglio dei ministri in cui si sarebbero assegnate le poltrone del sottogoverno, e gli ha dato l’annuncio: “Guido, come sottosegretario ai Rapporti col Parlamento ho pensato a te”.
A volerlo sottosegretario è stato Giorgetti, per marcare Fraccaro, “unica testa pensante del M5s”. La telefonata decisiva l’ha fatta Salvini
La stanza che gli è capitata, in una coincidenza a sua modo emblematica del cambio di stagione, è quella che fu occupata, a suo tempo, dal capo di gabinetto di Maria Elena Boschi: cioè colei di cui lo stesso Guidesi si ritrovò a chiedere ufficialmente le dimissioni, alla Camera, il 18 di dicembre del 2015, quando si votò la mozione di sfiducia – respinta – all’allora ministro delle Riforme, tirata in ballo nella buriana di Banca Etruria. E anche allora, si trattasse di un caso o di una scelta deliberata, cravatta istituzionale e fazzoletto verde nel taschino della giacca, parlava avendo al suo fianco, alla sua destra, il “maestro”. E però nell’ufficio di Guidesi, giura chi lo bazzica, il ritratto della Boschi non c’è: contravvenzione evidente all’ordine emanato dallo stesso Giorgetti: il quale, in un moto di paternalismo da anziano saggio che però è pure sintomo di un timore preventivo, a tutti gli uomini di governo del Carroccio, all’indomani del giuramento al Colle, aveva raccomandato di appendere la foto della madrina del renzismo accanto a quella del presidente della Repubblica, “per ricordarsi di come si possa facilmente crollare dagli allori alla disfatta”.
Ma è l’unica disobbedienza che si è concesso, pare, il fido Guidesi. Sin dai tempi, era il 2007, in cui l’allora ventisettenne bassolano – lombardo di Codogno ma cresciuto a San Rocco al Porto, tremila abitanti insaccati in un’ansa del Po che è già quasi Emilia, con Piacenza dirimpetto a cinque chilometri – venne eletto segretario della Lega nella sua Lodi e riuscì, forse anche per essere il più giovane tra tutti i leader provinciali tra Milano e dintorni, a farsi notare da colui che già da un lustro era il capo della Lega Lombarda. “Mi ha un po’ cresciuto, il Giorgetti”, ama ripetere Guidesi, sempre riferendosi all’altro per cognome, come per un residuo di reverenza, e quasi sempre anteponendo l’articolo, segno di orgogliosa fedeltà alle origini. Ma in verità, quando arriva alla guida della segreteria provinciale, nel 2007, Guidesi la sua gavetta l’ha già cominciata da tempo.
“Chiedi a Guidesi”, ripetono i leghisti in Transatlantico. E lui tutte le mattine entra a Palazzo Chigi, per parlare “col Giorgetti”
La folgorazione – almeno a volersi fidare del racconto autobiografico, chissà quanto romanzato, tante volte riproposto davanti alle assemblee dei militanti – arriva a sedici anni, alla vigilia della marcia per l’indipendenza della Padania. Arriva, manco a dirlo, con l’epifania di Umberto Bossi in tv: l’adolescente appollaiato sul divano che resta affascinato dall’eloquio trascinante del Senatùr. Comincia come attacchino (“Portavo in giro gli adesivi”, ricorda lui), s’affaccia alle prime adunate. Nel 2004 diventa responsabile organizzativo provinciale, e insieme pure consigliere comunale a Casalpusterlengo, a due passi dalla natia Codogno, dov’è anche segretario di sezione. Resta tra i banchi dell’opposizione per quattro anni; poi, nel 2009, torna a tutti gli effetti nel suo comune di residenza: sempre in minoranza, a battagliare contro il sindaco Giuseppe Rivera, ma stavolta da capogruppo.
Nel frattempo, però, inizia anche la scalata alla gerarchia del partito: segretario provinciale, poi membro del direttivo e della segreteria nazionale – cioè regionale, al netto del gergo indipendentista ancora in vigore nel Carroccio. Nel novembre del 2015, a Brescia, da deputato ormai iniziato alla mollezza capitolina, sarà lui a presiedere il congresso e a proclamare il nuovo segretario nazionale della Lega Lombarda, invocando dal palco l’acclamazione per il monzese Paolo Grimoldi su invito dell’immancabile Giorgetti, davanti al grande striscione che faceva da sfondo e su cui campeggiava, a caratteri cubitali, la scritta: “Lombardi, Roma vi ruba 153 milioni al giorno. Riprendiamoci il nostro futuro senza aspettare un giorno di più”. “Era quello usato anche nelle edizioni precedenti, volevamo evitare di spendere inutilmente per la scenografia”, prova a giustificarsi, senza neppure la pretesa d’essere creduto, chi s’occupò dell’organizzazione dell’evento. “Era il 21 di novembre, il giorno prima era morto il grande Gilberto Oneto: il clima era evidentemente particolare”. Ma forse non erano solo un omaggio al consigliere di Gianfranco Miglio, teorico mai domo dell’indipendentismo padano, se dalla platea dei delegati, quel giorno, continuano ad alzarsi in continuazione i cori che invocano la secessione, che recuperano slogan ormai quasi desueti. Forse erano il sintomo di umore profondo, mai davvero mutato, della base storica della Lega. Una fedeltà agli ideali della prima militanza che è condivisa in effetti anche dalla gran parte della dirigenza lombarda del Carroccio: che pure, tuttavia, sotto impulso dello stesso Giorgetti, segue con convinzione, e certo anche per convenienza, la svolta imposta da Matteo Salvini. Guidesi non fa eccezione, anzi, convinto com’è non solo dalla forza del carisma del nuovo leader, il “Capitano”, ma anche della possibilità di proseguire le antiche battaglie seppure in un contesto più ampio.
E tuttavia, mentre al nord la talpa leghista continua, più o meno silenziosamente, a scavare, come nel caso dell’autonomia di Veneto e Lombardia, nel frattempo il Carroccio si rinnova. Quando nel 2013 Guidesi ottiene la prima elezione alla Camera, l’era di Salvini sta per cominciare. “Non ho mai temuto il collasso, neanche nei giorni più neri: abbiamo una struttura sul territorio diffusa e radicata, che ci avrebbe presto o tardi permesso di rimetterci in piedi. Poi forse è successo prima e meglio del previsto, e questo lo dobbiamo a Matteo”. A Giorgetti deve invece la fiducia che gli è subito accordata, nella pattuglia dei deputati. Viene scelto come capogruppo in commissione Bilancio: la stessa da cui l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha iniziato a costruire, oltreché la sua famigliarità coi conti dello stato, anche la sua rete di referenze diffuse, e via via sempre più prestigiose. Depone forse a favore di Guidesi anche l’aver condiviso, almeno in parte, la stessa passione per la contabilità che è propria di Giorgetti. Si è diplomato infatti, Guidesi, in Ragioneria, al Romagnosi di Piacenza. Poi, però, anziché affinarsi alla Bocconi, ha iniziato subito a lavorare: una breve parentesi da commesso di supermercato, poi assicuratore, quindi fiscalista in Confartigianato, dove vanta tuttora ottime entrature, e impiegato di banca nel Credito cooperativo centropadano (esperienza di cui non si è dimenticato, se è vero che, come si vocifera nel governo, una delle mani più operose, nella recente stesura del decreto che sancisce la proroga della riforma delle Bcc, è stata proprio la sua). Oltre che contro “le banche del giglio magico”, nei suoi primi cinque anni da deputato si spende nelle battaglie classiche del leghismo: contro l’invasione, contro la restrizione europea sulle armi, contro la costruzione di nuove moschee. Ma pure s’intestardisce in iniziative che paiono velleitarie, se non grottesche, e che però devono consentirgli di rimarcare il suo attaccamento al territorio, come quella per la disciplina alla caccia alle nutrie, roditori malefici per i rivieraschi, col loro vizio di bucare gli argini del Po. Nel novembre scorso – di certo memore anche dei viaggi del padre per accompagnare Luigi Negri, ciclista sanrocchino di buone speranze mai approdato però al professionismo d’alto rango – trova anche il tempo per scrivere a Rosy Bindi, per chiedere di affrontare in commissione Antimafia il caso Pantani dopo la riapertura dell’indagine da parte della Procura di Forlì.
A 16 anni la folgorazione per Bossi. Una lunga gavetta nel partito, poi l’arrivo alla Camera nel 2013. Leghista pure la sua compagna
Rielezione scontata, il 4 marzo. Di lì in poi, lavorio di retrobottega nelle convulse trattative, spesso accanto al maestro di sempre. Al punto che il pomeriggio del 30 maggio – quello in cui si capì che il dialogo tra la Lega e il M5s era tutt’altro che interrotto, con l’imbarazzo di Carlo Cottarelli che, da premier incaricato, si vedeva costretto ad “attendere i nuovi sviluppi” di fronte alla possibile formazione di un “governo politico” – per smentire i lanci di agenzia che volevano “Giorgetti al Quirinale a colloquio con Mattarella”, contravvenendo alla sua proverbiale idiosincrasia per i social il numero due del Carroccio decide di farsi un selfie: aria guascona, postura un po’ stravaccata, il volto di Giorgetti compare accanto a quello enigmatico, ma sereno, del suo figlioccio. “Fake news, siamo al gruppo della Lega”. La voce su un incarico governativo a Guidesi si fa sempre più consistente: qualcuno azzarda perfino una sua promozione a ministro dell’Agricoltura. Alla fine la telefonata di Salvini gli squaderna la sua sorte. Gli tocca vivere quasi sempre a Roma, ora: cosa che, con recitata insofferenza padana, fa dal lunedì al venerdì, per poi dedicarsi a eventi sul territorio della Bassa e del resto della Lombardia. Il tutto confidando nella pazienza della sua compagna, del resto pure lei militante leghista. Passa gran parte delle giornate nel suo studio di Largo Chigi, e però della sua silenziosa ubiquità, della sua centralità defilata, ci si accorge anche in Transatlantico. E non solo per quel suo fumare nervoso, sulle scale del cortile di Montecitorio, rientrando nel palazzo con l’ultimo sbuffo ancora da smaltire; ma anche e soprattutto perché il suo nome ricorre con bizzarra frequenza nei conciliaboli dei deputati con la spilla di Alberto da Giussano sulla giacca. “Chiedi a Guidesi”, “Ne parlo con Guidesi”, “Sentiamo che dice Guidesi”: tutti abbastanza persuasi del fatto che il suo responso sia fedele a quello dell’altro “GG” (così viene abbreviato, nelle chat dei leghisti, Giorgetti), e dunque a quello di Salvini. Sui giornali compare poco, in tv invece spesso viene mandato quando – spiegano nello staff della comunicazione del Carroccio – c’è bisogno di “spiegare”, di “tranquillizzare”. Cosa per cui Guidesi, nonostante una certa scorbutica sbrigatività nei modi, un pragmatismo lombardo un po’ ruvido e compiaciuto, viene ritenuto spendibile. E lui evidentemente deve divertircisi, in questo ruolo: se è vero che alla fine se l’è voluta prendere lui la briga di compiere lo sgarbo che in tanti meditavano, nei confronti dei colleghi di governo grillini, in riferimento al reddito di cittadinanza (rimasto per giorni un titolo vuoto senza altre indicazioni, un’incognita preoccupante per gli stessi leghisti e per il ministro Giovanni Tria). E così il 25 settembre scorso, a due giorni dalla firma del Def (poi ritoccato e ricorretto fino allo sfinimento), per primo ha detto che l’erogazione del sussidio tanto caro ai Cinque stelle poteva, e forse doveva, essere legata all’Isee. Ne sono seguite ore di telefonate concitate e di scambi di messaggi accalorati. E d’altronde, quando ancora gli obblighi dell’alleanza di governo non arrivavano a imporre di silenziare i borbottii, della misura poi finita in manovra con 10 miliardi di finanziamento così scriveva Guidesi: “Continuo a pensare che ci sia una bella differenza tra un reddito di dignità e la dignità di avere un posto di lavoro pagato il giusto: preferisco la seconda e credo dovremmo investire sul lavoro e non sull’assistenzialismo”.
Lodigiano, cresciuto ai confini con l’Emilia. Lotta contro le moschee, ma pure contro le nutrie del Po. La lettera alla Bindi su Pantani
Non è stato – insieme a Giorgetti e al viceministro all’Economia Massimo Garavaglia, insieme al sottosegretario allo Sviluppo Dario Galli – tra i più entusiasti della chiusura della trattativa sul Def, la sera del 27 febbraio. Ai colleghi deputati, in pubblico, predicava comunque “coraggio e sangue freddo”, per dire che insomma indietro ormai non si potrà tornare in ogni caso, e intanto meditava sull’istituzione di un fondo per finanziare borse di studio per neolaureati da spendere al momento dell’assunzione a tempo indeterminato, per abbattere il cuneo fiscale nei primi tre anni. “Poche decine di milioni di euro”, dicono i leghisti messi a parte del progetto. Insomma non granché, nel mare magnum di una manovra pensata soprattutto per i pensionati da sedurre in vista delle Europee. “Ma è pur sempre qualcosa”. Con Giorgetti parla anche di calcio: e non solo della sua Inter. Parla più che altro di una complicata riforma della Figc e del Coni. “E’ lui che si sta occupando del riordino della giustizia sportiva”, dice un suo collega di governo, con l’aria di quello che parlava degli illusi, come a voler aggiungere una terza categoria a quelle degli emuli di Napoleone e di coloro che pensano di risanare le Ferrovie dello stato. I nuovi alleati grillini, incuriositi da questo lombardo risoluto e un po’ scostante affiancato a Fraccaro in un dipartimento che per esigenza di propaganda deve occuparsi, oltreché dei rapporti col Parlamento, anche della democrazia diretta, lo hanno interrogato per capire cosa ne pensasse di questa loro ossessione. Pare si sia stretto nelle spalle, sorridendo: “Democrazia diretta? Bah, non credo serva una denominazione innovativa, per imparare dagli svizzeri. Ma se aiuta, ben venga”.