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“Congelare reddito di cittadinanza e quota 100”. L'altro piano B grilloleghista

Valerio Valentini

Nella maggioranza si fa strada un fronte di sedicenti “responsabili” preoccupati dall’impennata dello spread. Obiettivo: subordinare l'attivazione effettiva delle misure all’andamento del pil

Roma. “Trattare, si dovrà trattare”, dice il deputato leghista. “Mancano ancora dieci giorni: pochi, ma anche tanti”, gli ribatte il collega grillino. E insomma ci si sta pensando, a una via d’uscita? “Ovvio, ma passerebbe per un congelamento, almeno temporaneo, delle misure elettorali”. E dunque? “Eh”. E dunque, in sostanza, la cosa su cui in fondo, da un lato e dall’altro della barricata, sono tutti d’accordo, è che Luigi Di Maio e Matteo Salvini non saranno mai d’accordo.

 

E tuttavia un fronte di sedicenti “responsabili”, quelli che quantomeno non reagiscono con un’alzata di spalle all’impennata dello spread, comincia ad acquisire una sua consistenza tra i divanetti del Transatlantico e delle commissioni parlamentari e poi su su, salendo per li rami, anche nei ministeri e nelle stanze di Palazzo Chigi. Bicolore pure questa, di formazione, perché una certa preoccupazione s’è diffusa sia nella Lega sia – seppure più silente, più timorosa di rivelarsi – nel M5s.

 

I leader, da entrambi i lati, mostrano i muscoli: “Non retrocediamo”, dice Di Maio. “Lo spread? Tutta una manovra di speculatori à la Soros”, sentenzia Salvini. Ma mentre i due vicepremier, per esigenze elettorali, restano categorici nelle loro intenzioni, dietro le quinte è in funzione un lavorio di diplomazie che una trattativa, in vista dell’invio del Def a Bruxelles previsto per il 15 ottobre, cercano di aprirla davvero. Proponendo una soluzione di compromesso: ottenere, cioè, che il tetto del deficit non venga abbassato, ma venga sfruttato diversamente. E così lo spazio di manovra verrebbe destinato agli investimenti pubblici, soprattutto sulle piccole e medie opere, che nell’ottica grilloleghista sono l’unico motore di un possibile rilancio della crescita. Contestualmente, le misure di politica sociale, compresi il reddito di cittadinanza e “quota 100”, verrebbero rimandate all’estate prossima.

 

Potremmo subordinare la loro attivazione effettiva all’andamento del pil: se a giugno saremo davvero intorno all’1,5 per cento di crescita, a quel punto avremo il via libera”, dicono dalla maggioranza. Quello che tacciono – ma che pure non è difficile da aggiungere – è che d’altronde questa verifica cadrebbe comunque dopo il voto delle Europee: “E a quel punto i vincoli di oggi non varrebbero più”, per cui liberi tutti. Ma a Bruxelles accetterebbero una proposta del genere? “Chissà. Ma almeno così li si metterebbe con le spalle al muro: se rigettano l’accordo, se la prenderebbero loro la responsabilità della rottura”. E a quel punto chiamare la piazza, invocare la rabbia del popolo contro l’ottusità delle élite, sarebbe più facile. E in fondo è proprio questo il desiderio recondito di Salvini e Di Maio, che sono infatti, al momento, l’ostacolo maggiore sulla via della trattativa al ribasso con l’Ue.

 

E del resto questo fronte di sfascisti garbati, quelli che sperano in un accordo ragionevole, è grosso modo lo stesso che, alla vigilia del Consiglio dei ministri finito con la festa sul balcone di Palazzo Chigi, si diceva fiducioso di poter persuadere Salvini e Di Maio ad accettare un deficit non superiore al 2 per cento. E sappiamo come è andata.

 

Se stavolta qualcosa cambierà, nell’esito dell’opera di convincimento, lo si dovrà semmai alla febbre sui mercati. E’ quella, molto più che i moniti dei Moscovici e degli Juncker, a preoccupare il governo. Il declassamento di Moody’s e Standard & Poor’s, il 26 ottobre prossimo, è dato per scontato. “E’ stato già stabilito, forse da mesi”, mugugnano nel governo. Ma è certo che il giorno dopo il downgrade non si potrebbe tornare indietro: neppure le – tutt’altro che improbabili – dimissioni di Giovanni Tria e di qualche suo stretto collaboratore al Mef potrebbero servire a far tornare Di Maio e Salvini sui loro passi. A quel punto bisognerebbe “tirare dritto”, mettendo in conto tutte – tutte – le possibili conseguenze, pure le più drastiche. Ecco perché chi, in un rigurgito di responsabilità, teme la via del non ritorno, tenterà una disperata moral suasion sui due vicepremier prima di quel fatidico 26 ottobre.

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