Il complotto, autobiografia d'Italia. Da Cavour allo spread
Di Maio e Salvini che evocano “manovre” e “manine” portano al governo l’antica passione italiana per la dietrologia
Sicuri che De Gasperi non fosse un agente della Cia? E Vittorio Emanuele era davvero il figlio del re o era piuttosto, come sospettava Carlo Dossi alla metà dell’Ottocento, il figlio dello stalliere sostituito nella culla? La dietrologia è arte fantastica, ma suggestiva, mentre la realtà, la cronaca e la storia sono spesso molto più noiose. Come stupirsi allora se questa settimana, nei giorni in cui il famoso spread saliva su fino a 317 punti, Matteo Salvini ha iniziato a parlare “dei vecchi speculatori che hanno ordito una manovra per comprarsi le aziende italiane in saldo”. Le situazioni nette ci sembrano inutili e misere.
Non c’è bomba e non c’è delitto, non c’è scissione a sinistra e ingresso in politica, non c’è caduta di governo, da Craxi a Prodi, che nella storia d’Italia non siano stati attribuiti a un complotto. Dunque i servizi deviati e la massoneria, il doppio stato, Mani Pulite organizzata dagli americani, il Risorgimento guidato dagli inglesi, i servizi bulgari dietro all’attentato al Papa, lo scandalo Montesi orchestrato per far fuori Attilio Piccioni, fino a George Soros che adesso ci vuole falliti e pieni di migranti. E infatti perché mai pensare che lo spread salga per l’inaffidabilità e l’incertezza trasmesse dal governo a chi dovrebbe comprare i nostri titoli di stato, perché mai ritenere che l’aver accennato all’uscita dall’euro possa aver provocato qualche timore negli investitori, quando invece si possono rivelare con un brivido d’eccitazione e d’orgoglio letterario intrighi e macchinazioni, come fa Luigi Di Maio: “Il sistema mediatico e il sistema europeo hanno deciso che dobbiamo cadere”.
L’evidenza ci turba, ci appare banale, noiosa, certamente al di sotto della soglia della nostra intelligenza e ovviamente anche delle nostre capacità, che sono così elevate da evocare e coalizzare contro di noi ogni potere occulto che esista sulla faccia della terra, malgrado – invece – forse noi si sia soltanto dei pasticcioni improvvisati. Mesi fa, per esempio, mentre Roma si riempiva di lavastoviglie e frigoriferi abbandonati per strada, Virginia Raggi, ritenendo forse eccessivamente convenzionale la spiegazione secondo la quale i frigoriferi stavano a bordo di strada perché lei non aveva rinnovato l’appalto per la raccolta dei rifiuti ingombranti, rivelò l’esistenza di un “complotto dei frighi”.
E questa era solo la coda del complotto delle scie chimiche, di quello del Bilderberg, di quello della Xylella, di quello scoperchiato da Paola Taverna (prima dell’“accanimento” sulla casa di sua madre) che mirava – urca! – a “farci vincere le elezioni”, fino ai piani segreti dei burocrati del Mef traditori e anche un po’ “pezzi di merda” che volevano boicottare la manovra. E c’è ovviamente un eterno ritorno, forse persino un carattere nazionale in questi sforzi di creatività cipigliosa. Nel 1991 De Mita accusò il banchiere Cuccia di essere dietro ai referendum di Segni, e Andreotti quando parlava della febbre giudiziaria del ’92 faceva riferimento a un “ignoto suggeritore”, mentre più recentemente Renato Brunetta ha ricostruito così la caduta di Silvio Berlusconi nel 2011: “L’imbroglio dello spread”.
Quello del complotto è ovviamente un alibi per il fallimento e oltre a divertire assai gli italiani, che amano i romanzi gialli almeno quanto le serie tivù, serve a rendere ogni fatto ancora meglio smentibile, revocabile, a suscitare altri ingarbugliamenti, più fiere sospettosità, confusione ulteriore, vaste nubi di nuovo gas. Sicché alla fine qui da noi la linea più rapida tra due punti è… un nodo sabaudo. Lo spread sale? “E’ Soros”. Il Fmi critica? “Si sono messi d’accordo con Soros”, e così via. E i produttori di questo vasto e stupefacente fotoromanzo noir non corrono alcun rischio, e non solo perché sono loro i primi a crederci sul serio, ma perché sanno di poter contare su una audience ormai assuefatta da 157 anni di teorie del complotto, e che dunque le assorbe, le ripete, le effonde, e ne fa quasi una specie di nuovo genere letterario, che alla fine è la nostra autobiografia nazionale.