Uno studio sulle tribù politiche, con una sorpresa troppo bella
Che ce ne facciamo dell’indignazione contro il populismo se non è efficace?
Milano. Il think tank More in Common ha appena pubblicato uno studio sulla polarizzazione dell’elettorato politico in America che si intitola “Hidden Tribes”, tribù nascoste. More in Common è un centro studi molto giovane, è stato fondato lo scorso anno con l’intento di creare un “noi”, di raccontarlo, questo “noi”, per sottolineare “ciò che ci unisce più che ciò che ci divide”: lavora nel Regno Unito, in America, in Francia e in Germania e si è occupato anche di identità nazionale e immigrazione in Italia, con un paper pubblicato a luglio. “Hidden Tribes” è il frutto di un lavoro di un anno, con interviste, focus group e analisi econometriche e, secondo il commentatore del New York Times David Brooks, è uno degli studi più completi e interessanti che abbia letto, perché “comprende che la politica americana non riguarda più che piano sanitario sostieni, ma l’identità, la psicologia, la morale, le dinamiche del risentimento tribale” – e questa consapevolezza non dovrebbe restare soltanto negli Stati Uniti. Le tribù nascoste dell’America sono sette: da sinistra a destra, ci sono gli attivisti progressisti, i liberal tradizionali, i liberal passivi, i disimpegnati, i moderati, i conservatori tradizionali e i conservatori devoti. I più attivi di tutti sono i primi e gli ultimi, gli attivisti di sinistra e i conservatori devoti e anche se sono numericamente pochi – rappresentano il 14 per cento – sono i più ricchi, i più bianchi, i più istruiti. Cioè gli agenti della polarizzazione, quelli che a ogni domanda rispondono in modo esattamente contrario, le due anime inconciliabili che orientano il dibattito politico con una determinazione straordinaria, urlando, commentando, votando, sono – dice Brooks, mostrando la sua stessa sorpresa – “di nicchia”. Pensiamo di vivere in un momento populista e scopriamo che il tribalismo è frutto di una guerra tra progressisti privilegiati e conservatori privilegiati, i primi devoti di una visione à la Rousseau e i secondi di una à la Hobbes.
Se si guardano le risposte alle domande su immigrazione, sulla violenza dell’islam ma anche sull’educazione dei figli, meglio la disciplina o la creatività, si vede nettamente lo scontro ideologico: c’è una contrapposizione esatta su ogni tema.
Sarebbe però troppo facile e ingenuo affezionarsi a questa rappresentazione: gli agenti della polarizzazione saranno pure una nicchia privilegiata, ma il populismo c’è eccome, vota e vince, elegge capi di governo, è il protagonista di questa nostra storia contemporanea, altro che nicchia, altro che privilegiati. Ma alcuni elementi di questa analisi possono rivelarsi comunque utili, soprattutto perché si scopre che il risentimento tribale che è alla base della polarizzazione – non solo io contro di te, ma io contro di te e tu mi fai schifo – è frutto del disinteresse. Quando i disimpegnati sono costretti a scegliere, scelgono uno dei due culti estremisti. Questa dinamica ha conseguenze enormi su quella che gli autori dello studio definiscono “la maggioranza esausta”, il 65 per cento che non è estremo, che è anche un po’ stanco, ma non trova il modo di rendere efficace, a livello individuale e collettivo, la propria esasperazione. Mike Allen, commentando le tribù, fa l’ottimista: “Buone notizie per i sognatori di un terzo partito”, scrive, due terzi degli americani ne hanno abbastanza della battaglia estremista e cercano qualcosa di nuovo. Ma ancora una volta: sarebbe troppo bello. La ricomposizione contro il populismo non prende forma finché gli esausti hanno poco da raccontare e molto da lamentarsi, non si accordano su una visione coerente di loro stessi e del mondo, s’accapigliano, s’accontentano di chiedere dimissioni di massa alle cause della loro indignazione. Quando cresce il risentimento tribale, sappiamo già chi ha la meglio.