Il corteo degli studenti contro le politiche del governo 12 ottobre (Foto LaPresse)

Il Mamiani occupa contro il governo, ma anche contro l'opposizione

Marianna Rizzini

Cronache dal liceo romano: niente, Ichino non l’hanno letto

Roma. È la mattina dopo la prima occupazione studentesca romana in epoca di governo gialloverde, e lo striscione “mai con Salvini” si staglia sul muro di cinta dello storico liceo Mamiani. La sera prima, dal collettivo che ha deciso per l’azione, era filtrata l’idea di una piattaforma di protesta “antirazzista”, contro la chiusura dei porti, e “sociale”, contro la manovra di un governo “dalla linea politica superficiale”. E su questo punto, quasi quasi, gli studenti del Mamiani erano sembrati in linea con quello che provocatoriamente aveva notato l’ex senatore pd Pietro Ichino da sempre critico verso la reiterazione delle occupazioni d’autunno, e con ottimismo rilanciato dal Foglio: e cioè che quest’anno, forse, esisteva “un motivo forte e specifico per protestare”, cioè l’annuncio del governo di voler abbandonare il “sentiero stretto” della correzione dei conti pubblici, creando le condizioni per caricare in futuro i giovani.

 

Ma è un effetto soltanto apparente. Fuori dal Mamiani si assiepano ragazzi che vogliono unirsi agli occupanti e ragazzi che, pur dicendosi d’accordo con le parole d’ordine dell’occupazione, avrebbero preferito autogestirsi. “Siamo orfani di un sogno e pronti a costruirlo”, dice dal cortile Guglielmo Mihelj, componente del collettivo scolastico, definendo il governo “incompetente” ma l’opposizione “inesistente”. Ed ecco che la protesta di oggi si salda a quella dell’anno prima e ancora prima, e si distacca dal paradigma Ichino: la colpa, dicono in sostanza gli occupanti, è comunque e sempre anche del Pd, e il “no” al governo si erge su bersagli-simbolo precedenti, vedi il renziano Jobs Act. Mihelj dice che l’idea di fondo è quella di una protesta “costruttiva”, “contro l’indifferenza”, “più unitaria possibile”, e che l’intento “è quello di stimolare il dibattito al di là dell’appartenenza politica”.

 

Si apprende che sono attesi alcuni ospiti: un architetto che dovrà parlare di rom, un ex studente che occupava nel ’68, la figlia di Gianni Minà sulla rivoluzione cubana. “Che c’entra Cuba?”, si domanda perplesso un docente. Fatto sta che, alle 9 del mattino, non si può entrare né uscire dall’istituto: la preside Tiziana Sallusti, sulla porta, sta cercando di dissuadere gli occupanti dal proseguire l’occupazione e gli aspiranti occupanti dal proseguire un sit-in che potrebbe essere considerato occupazione non autorizzata di suolo pubblico. Interpellata, pur sottolineando “la stima per gli studenti” e “il rispetto per le idee”, mostra preoccupazione “specie se la protesta dovesse prolungarsi di notte” e invita a considerare altre forme di espressione del dissenso: “L’autogestione è sempre stata fatta”. Ma, dice poco dopo un aspirante occupante, “non sarebbe stata altrettanto mediatica”.

 

Poi c’è chi, come Jacopo, concorda con le idee ma non col metodo di chi “ci priva del diritto all’istruzione, peraltro nel giorno in cui era in programma la presentazione delle liste per il consiglio d’istituto”. Ludovica invece vorrebbe occupare “contro un governo che fa cose assurde” (entrerà solo quando le porte vengono aperte agli studenti per evitare rischi peggiori, visto l’assembramento esterno), ma un’altra Ludovica le dice: “La vostra è una dittatura”. Poi ci sono i più piccoli, in sit-in. Dice Margot: “Protestiamo anche contro il sessismo”. Dice Daniele: “La protesta non è contro gli insegnanti”. Interviene Francesco, più grande: “La nostra è una protesta nell’interesse di tutti, e in democrazia chi non partecipa perde”. Un padre sbotta: “Qui tanto si lascia fare, è un liceo frequentato dai figli di papà”.

 

Un altro padre è venuto a vedere come sta suo figlio, quattordicenne. Il figlio arriva: zaino in spalla, guarda il genitore al di là del cancello chiuso. Non esce. Il padre chiede “stai bene?”, poi sconsolato se ne va (“mi pare convinto”). Tra i docenti c’è chi ironizza sull’oratore post sessantottino e chi si rammarica: “Tra due giorni doveva venire qui a parlare la senatrice Liliana Segre”. Il docente Giuseppe Stinca definisce la protesta “codarda: tanto poi li copriamo noi, no?”. All’interno, intanto, sta per prendere il via il corso sulla storia del M5s (“per far capire come siamo arrivati qui, al populismo”). Ma persiste, qui e là, il ricorrente j’accuse contro “la sinistra che ci ha abbandonati”, con vago effetto straniante. Poi cala la sera: c’è la proiezione di “Sulla mia pelle”, il film su Stefano Cucchi.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.