La Chiara deriva dell'Italia
L’immobilismo come virtù, l’isolamento come destino, la decrescita come programma. Cosa rischia un paese sottomesso al populismo? Per capire dove porta la cultura del no bisogna andare a Torino. Dove oggi il Consiglio comunale vota lo stop alla Tav
È un lunedì, la gente scende a Milano, il treno che prosegue e ferma a Torino d’un colpo si svuota. Dopo neanche un’ora arriva a Porta Susa, che è bellissima e non fa rumore, anche perché non c’è nessuno e gli spazi per i negozi sono in allestimento da quando è stata (più volte) inaugurata, ormai quasi dieci anni fa. “Torino già è tagliata fuori di suo, perché è nell’angolo estremo alla sinistra dell’Italia, quindi continuare a insistere sul no alla Tav è drammatico”, dice Ugo Nespolo nel suo studio in via Susa, traboccante di libri e opere. L’isolamento di Torino è inevitabilmente geografico, ma adesso anche ideologico. Chiara Appendino, dal 2016 sindaca di Torino, “quella brava”, una borghese laureata alla Bocconi ma ex elettrice di Sel, “finta incendiaria” (definizione di Tempi) con famiglia confindustriale, è prigioniera della sua maggioranza in Consiglio comunale, dove siedono molti consiglieri vicini ai centri sociali. Come Maura Paoli, Daniela Albano, Damiano Carretto, Viviana Ferrero. No Tav e No Olimpiadi. Anche in giunta non scherzano. Il vicesindaco Guido Montanari alle manifestazioni contro l’alta velocità ci va con la fascia tricolore. E mentre il governo Conte traccheggia, il sottosegretario Stefano Buffagni definisce “inutile” la linea ad alta velocità e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli intima di non “azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera”, oggi in Consiglio comunale il M5s presenterà ufficialmente lo stop alla Tav. La sindaca peraltro non ci sarà perché impegnata a Dubai
Chiara Appendino prigioniera della sua maggioranza in Consiglio comunale: molti consiglieri vicini ai centri sociali
Il documento, presentato dalla maggioranza, impegna l’amministrazione a chiedere a Roma di “rendere pubblici e verificabili i criteri dell’analisi costi-benefici, valutare come alternativa la promozione della linea tra Torino e Modane, sospendere l’avanzamento dell’opera e qualsiasi spesa prevista dalla delibera del Cipe, ridiscutere gli accordi con la Francia e destinare i fondi previsti per la mobilità collettiva e sostenibile del territorio”. Se tutto questo sarà confermato, saranno buttati via 1,7 miliardi, soldi già spesi (la metà dei quali messi dall’Unione Europea) per i lavori di preparazione. Per l’ex capitale d’Italia, avere o non avere la Tav non è un dettaglio. Vuole essere solo il capolinea di Italo o Trenitalia oppure qualcosa di più? Dario Gallina, presidente dell’Unione Industriale, associazione che ha una storia lunga 112 anni, dice che a Torino con i Cinque stelle c’è un problema di “inesperienza, immaturità e ideologia”. Per vicinanza, tende a distinguere la sindaca dal resto del M5s; d’altronde, la Appendino viene da quel mondo e ha sposato un industriale che lavora nel settore plastico, lo stesso di Gallina. La prossimità però non gli impedisce di esprimersi con durezza sulle scelte dell’amministrazione. Di fronte al “binario morto”, come lo chiama lui, l’alternativa per la Torino che si arrocca e fa del popolare “esageruma nen” (non esageriamo) e dell’altrettanto popolare “bogia nen” (simbolo di caparbietà difensiva ma anche di immobilismo) un modello politico, è semplicemente quella di diventare (o restare) una “città di provincia”.
“I Cinque stelle hanno un problema di ideologia, che è sbagliata. E’ un’ideologia che porta avanti la decrescita infelice più che felice”, dice Gallina seduto nell’ufficio di viale Fanti. “La sindaca ha il suo contorno, è poliedrica, ma su certe cose sbaglia e non ho problemi a dirlo”. E qual è l’ideologia dei Cinque stelle torinesi? “E’ oltre il Nimby: è il no a qualunque cosa. Il no dappertutto, non solo nel giardino di casa. E quando un ministro dice che per lui non contano le grandi opere ma aggiustare i ponti, finirà che avrà tutti i ponti aggiustati ma sarà staccato dall’Europa”. L’ideologia insomma è quella dell’isolamento. La prosecuzione dell’arroccamento geografico con altri mezzi. L’ideologia del No. “Ma i loro non sono il ‘No’ del Bartleby di Melville, ‘I would prefer not to’. Questi ‘No’ presuppongono un sì rovesciato”, riprende Nespolo. Non è insomma resistenza passiva, ma una chiara indicazione ideologica. “Loro dicono: dobbiamo curare le periferia, perché è lì che si prendono i voti. Del resto non importa”, aggiunge l’artista.
Capita anche che Chiara Appendino voglia fare una certa cosa senza però riuscirvi. Il caso delle Olimpiadi è emblematico: le intenzioni della sindaca, favorevoli all’evento sportivo, sono state neutralizzate dalla sua maggioranza. “Le Olimpiadi sono lo specchio dell’ambiguità di questa amministrazione. Alla sindaca, con cui collaboriamo, riconosco una operosità importante ma in queste grandi scelte e di fronte a questi grandi bivi purtroppo la sua parte più ideologica e più nimby l’ha tenuta in scacco”, aggiunge Gallina.
Nella capitale del risentimento. Il pregiudizio che le grandi opere siano solo mangiatoie. La contiguità dei Cinque stelle (e della vecchia sinistra) con le aree ribelliste dei centri sociali. L’odio per Israele
“Con i denti si è strappato la volontà di farle, è partito tutto con grande fatica, le delibere amministrative erano molto complesse, avevano un sacco di paletti”. Poi c’è il governo nazionale, anch’esso “specchio dell’ideologia dei Cinque stelle, a cui di eventi del genere non gliene può importare di meno. La candidatura di Torino è partita debole e a Roma non è stata sponsorizzata. In più il governo non ha avuto gli attributi per prendere la decisione”. Secondo Gallina, peraltro, il dossier torinese era anche più vantaggioso e meno oneroso perché Torino può contare già sulle strutture sportive del 2006. Nonostante il vittimismo di Chiara Appendino (“Milano non può continuare a volerci scippare tutto”), le occasioni per Torino non mancano. E’ che manca la capacità politica di perseguirle. Non è più neanche solo un problema dei Cinque stelle. Il mondo ormai è così rovesciato che persino la Lega sulla Tav si è schierata con i Cinque stelle sulla famosa analisi costi/benefici. Il motivo? Le elezioni regionali.
L’anno prossimo il Piemonte va al voto, la Lega rischia di vincere pure qui e la Tav è diventata anche oggetto di scontro elettorale. Sergio Chiamparino, governatore del Pd che finora ha protetto la giovane sindaca legittimandola e facendo così infuriare una parte del suo partito (ma alla fine potrebbe aver ragione il capogruppo in Comune Stefano Lo Russo, che da sempre chiede al Pd di fare opposizione dura al M5s), ha deciso di puntare tutto sul sì alla Tav. La Lega, e qui sta la novità per un partito “sviluppista”, si è accodata per non lasciare la battaglia in mano ai Cinque stelle. Solo che a tutti appare un modo per prendere e perdere tempo e non realizzare l’opera. Raccontano che Francesco Molinari, che della Lega piemontese è il capo, non sia d’accordo con la linea del No, ma che non abbia pubblicamente detto niente proprio per evitare complicazioni nell’alleanza felpastellata a Roma. Chissà. “Noi saremmo un crocevia importante”, spiega Gallina. “Con la Tav in tre ore e mezzo saresti a Parigi, Barcellona, Londra. Le merci viaggerebbero velocemente. Con il porto di Genova e il Terzo Valico questo sarebbe uno snodo veramente europeo, secondo due direttrici: una da Sud a Nord, da Genova a Rotterdam, un’altra da Ovest a Est, da Lisbona a Kiev, fino alla via della Seta. Ecco, se non facciamo la Tav tutto passa sopra le Alpi e non siamo tagliati fuori. Milano viaggerà per conto suo, idem Genova”. Come finirà questa storia non è ancora chiaro. Anche se il vicesindaco benecomunista Montanari garantisce che la Tav “non esiste e non esisterà”, tanto da finire fuori dal piano regolatore, è possibile che si ripeta lo schema dell’area ex Westinghouse (o, a livello nazionale, lo schema dell’Ilva).
In campagna elettorale i Cinque stelle, Appendino in testa, gridavano contro i centri commerciali. Poi alla fine ne hanno autorizzati undici solo nel primo anno e mezzo, perlopiù nelle periferie, per fare cassa con gli oneri di urbanizzazione e non solo. Nell’area ex Westinghouse sarà Esselunga a costruire il nuovo centro congressi. “Eredità dell’amministrazione Fassino”, ha precisato Montanari per sfuggire alle critiche della “base” grillina, che sui “No” (alla tav, alle Olimpiadi e anche ai centri commerciali) ha investito molto. Altro clima in campagna elettorale, quando il M5s cercava il voto degli associati di Confesercenti, oggi sul piede di guerra per l’intenzione del Comune di estendere l’orario della ztl. L’elenco delle opere pensate dall’amministrazione precedente e confermate dalla giunta Appendino non è breve: Città della Salute, Metro 2 (anche se per ora saranno solo dei pullman), TorinoEsposizioni, la trasformazione dello Scalo Vanchiglia. “La giunta Appendino dopo averli osteggiati adotta i progetti del centrosinistra. Sarebbe onesto riconoscerlo”, dice Piero Fassino, che anni fa improvvidamente sfidò Beppe Grillo prima e Appendino poi a candidarsi alle elezioni e a prendere i voti. Non finì benissimo per il centrosinistra, come ha dimostrato la storia. Da lì sono nate su Internet i meme con le “profezie di Fassino”.
No TAV - Corteo non autorizzato a Torino (foto LaPresse)
“Sulle grandi partite si sono accodati a tutto”, conferma Giancarlo Banchieri, presidente di Confesercenti Torino. Magari finirà così anche con la Tav. Alcuni eventi però non attendono i traccheggiamenti dei Cinque stelle e lo dimostra la vicenda delle Olimpiadi. E dire, spiega Nespolo, che “quelle del 2006 sono state una grande occasione di conoscenza internazionale della città”. Quelle del 2026 sono invece diventate un’occasione sfumata. Se la giocheranno Milano e Cortina, ormai. “La sindaca era davvero convinta di portare avanti questo percorso, ma la sua maggioranza non l’ha fatto e questo probabilmente ha inciso sul risultato finale”, dice Banchieri nel suo ufficio. Dunque “non si è riusciti a entrare nella partita, perché si sono scontate queste divisioni all’interno della maggioranza. Questo è un segnale su come dentro la maggioranza ci sia una certa immaturità nel gestire i grandi processi e i grandi eventi”. Insomma, dice il presidente di Confesercenti, “c’è una parte di questa maggioranza che alla prova dei fatti si approccia alle situazioni complesse in maniera del tutto ideologica”.
In campagna elettorale i Cinque stelle gridavano contro i centri commerciali. Poi alla fine ne hanno autorizzati undici solo nel primo anno e mezzo, perlopiù nelle periferie, per fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Nell’area ex Westinghouse sarà Esselunga a costruire il nuovo centro congressi
Banchieri cita un esempio piccolo ma significativo. C’è una squadra di pallavolo che milita in A2, si chiama Parella, avrebbe pure la possibilità di arrivare in A1. Vorrebbero costruire un palazzetto nuovo da duemila posti con fondi privati in zona Massaua. Ecco, “all’interno della circoscrizione i consiglieri 5 stelle si oppongono e stanno bloccando il processo perché, dicono, il palazzetto consumerebbe suolo. Ma quel suolo è un prato abbandonato, pieno di sporcizia e siringhe, non è un giardinetto per bambini. Se arriviamo a discutere anche l’opportunità che un privato intervenga con soldi propri per creare un’attività sportiva, nemmeno di lucro, allora c’è un problema”. E se c’è un problema con un palazzetto, figurarsi con la Tav. “Secondo me la Tav sconta alcuni pregiudizi che viviamo in questo momento, come se tutte le grandi opere fossero delle mangiatoie. E’ vero che nelle grandi opere dei problemi ci sono stati, ma non capisco come si possa essere contro una modalità di trasporto che è più moderna, meno inquinante e rende la città più collegata al mondo. A Torino abbiamo un problema di accessibilità, non di eventi, di cui la città è già ricca. Io di mestiere faccio l’albergatore, da 15 anni. Le due frasi ricorrenti che sento dire dai miei clienti sono: uno, ‘non pensavo che fosse così bella’ e, ultimamente, ‘non sono riuscito a vedere tutto quello che avrei voluto’. La Tav è un modo per rendere accessibile la città, non è solo funzionale alle industrie che vogliono esportare meglio. Quindi è impossibile non essere a favore. Il tema è completarla senza far lievitare i costi. Un modello giusto da applicare per le cose nuove, ma non per quelle già in corso”. Insomma, sintetizza Silvio Magliano, capogruppo dei Moderati in Consiglio comunale e consigliere della città metropolitana (istituzione che a Torino è morta più che altrove), uno dei fondatori e organizzatori di Polis Policy, un corso di formazione in cui oltre 140 giovani imparano a comprendere la nostra società, “noi eravamo convinti che avere un sindaco dei Cinque stelle e un governo con i Cinque stelle portasse un beneficio a Torino. Invece ci becchiamo solo l’ideologia della base e nessun risultato oggettivo, perché siamo ai margini”.
Viene da chiedersi se non ci sia un’origine culturale nel risentimento contro lo sviluppo che affonda le radici in una parte della storia politica di Torino assai triste. “Se a livello nazionale esiste una certa ambiguità, i Cinque stelle di Torino sono caratterizzati in maniera molto forte per la contiguità con un’area pericolosa e ribellista, quella dei centri sociali e dei No Tav”, dice il professor Ugo Volli, semiologo dell’Università di Torino.
L’identità culturale molto precisa di ieri e l’incertezza di oggi. Il degrado delle periferie e la panacea delle “luci d’artista”. Il problema della sicurezza. E processi di lungo periodo: la maggiore vivibilità della città che ha reso tollerabile il declino economico. L’impalcatura del modello Fiat/Agnelli per la proiezione internazionale
“Area che si è allenata a praticare l’illegalità in Val di Susa e talvolta lo fa anche a Torino. Fra gli altri aspetti ribellistici di sinistra c’è anche l’ostilità per Israele. Ci sono stati campeggi No Tav nei territori dell’Autorità Palestinese che hanno preso a pretesto il fatto che la linea ad Alta Velocità fra Gerusalemme e Tel Aviv a un certo punto si sviluppa in un tunnel sotto terre che l’autorità palestinese ritiene siano sue”. Dunque Torino, “se non buca quelle montagne resta isolata dall’Europa in un angolo d’Italia. A parte le forze economiche che appoggiano il traforo, non c’è stata una mobilitazione sufficientemente forte da parte della città. E’ come se non ci fosse il coraggio di andare contro a queste forze luddiste, che hanno pesantemente minacciato le persone, invaso uffici. Non c’è stata l’indignazione civile che uno si aspetterebbe da una città antifascista”.
Questa contiguità però non nasce con i Cinque stelle, arriva da più lontano, spiega Volli. “A differenza di altre città italiane, non c’è mai stata secondo me a Torino una rottura decisiva fra la sinistra e le frange ribelliste per non dire di peggio ai tempi dell’illegalismo del ‘68 e del post-68. Il terrorismo qui è stato guardato male dalla sinistra ma non isolato”. Questo sdoganamento avviene più in piccolo anche oggi. Più recentemente, per esempio, “gli episodi violenti di manifestazione contro il G7 non sono mai stati condannati per davvero. Non c’è stata una presa di distanza di tutta la sinistra e in particolare degli intellettuali rispetto a queste pratiche”. E a Torino un luogo in cui si concentra l’antisemitismo e l’odio per Israele “sono alcuni dipartimenti dell’università. A partire dalla scuola che paradossalmente dice di venire da Norberto Bobbio. Ma c’è anche Gianni Vattimo, noto intellettuale torinese e già deputato europeo nelle liste della sinistra, uno arrivato a dire che i Protocolli dei Savi di Sion magari non sono veri ma è come se lo fossero”. Naturalmente, questa contiguità fra la sinistra e le frange del ribellismo non riguarda tutta la sinistra. Non riguarda i riformisti. “Esiste però un filo sottile di tolleranza nei confronti dell’illegalismo di sinistra che è molto diffuso. Da questo punto di vista, la vittoria dei Cinque stelle ha messo in crisi l’anima riformista della città”. Il ribellismo oggi siede saldamente in Consiglio comunale, che a luglio ha approvato una mozione contro Israele, passata non solo con la maggioranza dei Cinque stelle ma anche di un paio di consiglieri del Pd e l’assenza di altri. Il solo voto contrario è stato quello del capogruppo della Lega Nord.
La città delle occasioni perdute
La sindaca in campagna elettorale usò uno slogan che ebbe un certo successo: Torino è una città divisa in due. C’è “la Torino che fa le code davanti ai musei e quella che fa le code perché non ha da mangiare”. Malignamente, lo Spiffero ha titolato a inizio 2018: “Appendino, promessa mantenuta: eliminate le code davanti ai musei”. Svolgimento: “Nell’attesa che il 2018 porti via le code davanti alle mense dalla Caritas, l’anno appena concluso di certo ha ridotto, eccome, quelle davanti ai musei di Torino… Diminuiscono i visitatori nei musei torinesi. Questo è il dato certo… La Fondazione Torino Musei ha chiuso il 2017 con 616.960 visitatori, esattamente 200mila in meno rispetto all’anno scorso, quando furono 816.113, con una riduzione del 25 per cento”. C’è un problema con la cultura a Torino, la città dell’Einaudi e di Bollati Boringhieri, la città di Cesare Pavese? “Torino millantava, ma comunque aveva un’identità culturale molto precisa. Oggi c’è incertezza. E l’unica occasione per risollevarsi rischia di essere Cristiano Ronaldo. Non sento mai nessuno parlare di cultura, soprattutto in questa giunta. Semplicemente, non interessa”, dice Nespolo sfilandosi gli occhiali da vista, gli occhi guizzano come quelli di un ragazzino. “Eppure Torino è stata la città più elegante d’Italia, con una serie d’attività estetiche. Qui c’era un coacervo d’intellettuali che è sparito, dissolto. Quantomeno un tempo si spacciava per essere una città all’avanguardia. Mentre Roma è sempre stata ancorata alla cultura pop, Torino guardava a esperienze più concettuali. Oggi invece è come se la parte intellettuale non interessasse a nessuno”. Insomma, dice Nespolo, “Fassino aveva un’idea precisa, ci teneva. Chiamparino pure. Anche Valentino Castellani (sindaco dal 1993 al 2001, ndr). Poi intendiamoci, avevano tutti i loro difetti, perché la storia parte da lontano, però l’intenzione di mostrare che a Torino c’era un certo progetto culturale c’era. Adesso non è più così”. Insomma, la direzione non è Chiara, per parafrasare uno slogan della Appendino in campagna elettorale. Non solo sulla cultura. Anche sulle mitologiche periferie, dove l’amministrazione pensa di curare i mali che le affliggono con le “luci d’artista” installate in quartieri come le Vallette. L’anno scorso, in piazza Montale, dieci su diciotto furono fatte a pezzi. Panem et circenses, neanche troppo circenses peraltro. “Per carità. Non riescono a fare niente neanche lì. Il quartiere Aurora è un disastro. Possono solo ringraziare una cosa, che a Torino è rimasta una azienda che è Lavazza. Hanno fatto la sede lì e sono enormemente coraggiosi”, dice Nespolo. La sede Lavazza, con museo annesso, è imponente. E’ costata 100 milioni ed è stata inaugurata neanche un anno fa. Un gesto d’amore per la città in un quartiere difficile. E i risultati si vedono. In estate Confindustria ha tenuto lì la sua assemblea annuale. “Possiamo testimoniare che in un quartiere difficile il commercio si sta rivitalizzando. Abbiamo diversi associati che ci stanno chiedendo assistenza per aprire negozi”, dice Banchieri. Il resto però continua a non funzionare, nonostante la propaganda di Appendino in campagna elettorale. I residenti lamentano che nel quartiere si spaccia davanti alle scuole, che c’è degrado. Un comitato molto attivo, quello dei Cittadini Quadrilatero Aurora, fa manifestazioni e cortei. “Appendino qui ha preso tanti voti, ora chiediamo che si realizzino delle cose”, dice il presidente del comitato Gioacchino Perri. Siete delusi? “Adesso sarebbe sbagliato esserlo. Se fossimo al quinto sì, ma siamo solo al secondo ed è giusto che arrivino fino in fondo. Al Comune però diciamo: gli altri per vent’anni non hanno fatto nulla, noi come cittadini ci muoviamo, adesso chiediamo a voi di fare qualcosa. Le zone di spaccio sono in tutte le città purtroppo, ma quello che fa rabbia è che questa avvenga intorno ai giardini ci sono le scuole”.
A Torino c’è una questione sociale molto importante. Secondo dati del 2017, il tasso di disoccupazione giovanile era al 24,9 per cento, dieci punti in più che a Milano. C’è molto da lavorare sul tema. La città post-industriale ha cercato negli ultimi vent’anni una conversione, puntando su terziario, turismo, cultura. Il problema è che la città, come spiega l’ultima edizione del Rapporto Rota, “tarda a percepirsi come città terziaria”. Il perché è evidente: il settore pesa sull’economia quasi i tre quarti del totale, ma la città arriva ultima, ovvero quattordicesima su quattordici, nella classifica relativa all’incidenza del terziario sull’occupazione nelle Città Metropolitane italiane. La città sconta la dinamica comune al settore per cui il lavoro nel terziario è meno garantito e meno pagato rispetto a quello nell’industria. Servirebbe una visione industriale della città. Questo naturalmente non può competere solo al sindaco, servirebbe il famoso e contestato “sistema Torino”. Nel frattempo, però, servirebbe maggior cautela nella gestione sociale delle emergenze.
Nel 2016 l’elettorato delle periferie votò in massa per i Cinque stelle. Basta prendere alcune sezioni a caso di Corso Vercelli e vedere l’evoluzione del consenso dei Cinque stelle. Nel 2011 alle amministrative i Cinque stelle prendevano tra il 4 e il 6 per cento. Cinque anni dopo erano arrivati a percentuali tra il 29 e il 33 per cento. Bene, alle politiche del 2018, a vincere in quei quartieri è stata la Lega. Nel collegio uninominale che comprende anche il quartiere Aurora il candidato Roberto Rosso ha preso il 36,48, mentre il candidato del M5s Domenico Fioravanti si è fermato al 29,09 per cento, poco sopra la candidata del Pd Silvja Manzi con il 26,52. Laddove si dimostra che se fai demagogia sulle file della Caritas da accorciare o predichi maggiore sicurezza e poi non mantieni le aspettative, la gente non ti rivota e va a destra. “Le periferie hanno sperato nei Cinque stelle, ma stanno peggio di prima”, dice Magliano. Ci sono accorgimenti estetici, come le luci d’artista. Ma il degrado c’è sempre. Adesso l’amministrazione ha messo 250 mila euro per rifare le panchine in alcune zone disagiate, dal quartiere Aurora a Barriera di Milano. “Epperò – dice Magliano – sul tema della casa, dei poveri, delle politiche sociali, sul tema delle disabilità non hanno fatto niente. Se va bene hanno continuato le politiche di chi c’era prima. Faccio un esempio pratico. Io avevo fatto instituire la figura del disability manager, una persona che avesse il compito di monitorare le politiche pubbliche in termini di disabilità e avesse la forza di dire: se pensiamo un servizio pensiamolo accessibile. Non pensiamoci dopo. Loro hanno abolito la figura del disability manager incardinata sulla figura del direttore generale del comune dicendo che ne avrebbero individuato un altro. Fu il primo atto della Appendino. Due anni e mezzo il disability manager non c’è”.
La debolezza della sindaca
Ma, insomma, sarà tutta colpa dell’amministrazione a Cinque stelle o la questione è più complessa? “Non riesco a pensare che l’amministrazione Appendino sia la cagion di tutti mali, pur con tutta la mia perplessità (e perplessità è un eufemismo) nei suoi confronti”, dice Piero Gastaldo, per vent’anni segretario generale della Compagnia di San Paolo, seduto nel suo ufficio in piazza Bernini. “Ho l’impressione che adesso si stiano rendendo visibili – motus in fine velocior – una serie di situazioni le cui premesse sono da trovarsi in una storia più lunga degli ultimi 2-3 anni. Da questo punto di vista, quel che di bello c’è a Torino – una maggiore vivibilità della città – è stato ciò che ha reso tollerabile e sopportabile un processo di declino economico che non comincia oggi”. La storia è più lunga, dice Gastaldo. “La perdita di centralità direzionale così come la perdita di attività e quindi di nuclei importanti di impresa sostanzialmente ininterrotta da ormai più di 20 anni se non 30 – declino che neanche i momenti di particolare fioritura come le Olimpiadi del 2006 sono riusciti a ribaltare – segnalano che alle spalle c’è qualche dinamica di lungo periodo”. E’ inevitabile, dice Gastaldo, che molti dei problemi con cui si confronta oggi Torino derivino dalla struttura economica. “Non vedo nessun’altra città italiana che abbia preso così tante sberle come Torino. Nell’arco di 30 anni sono spariti il gruppo Olivetti, che pure non era a Torino città. Si è perso con il Gruppo Finanziario Tessile tutto quel sistema che gravitava attorno all’abbigliamento e alla moda; il gruppo Gft è stato molto importante per l’industrializzazione della moda italiana. Si è perso il cuore del gruppo Fiat, che resta con un senso di provvisorietà, debolezza e mancanza di centralità del tutto evidente. Avendo vissuto all’interno del mondo Fiat/Agnelli posso dirle che quella è stata un’impalcatura straordinaria per la proiezione internazionale della città.
L’isolamento della sindaca, che non s’è fatta vedere alla manifestazione Italia a Cinque stelle: s’è inimicata parte del suo partito e le categorie. I fatti di piazza San Carlo, un’altra linea di frattura, anche psicologica. Il rischio di un processo per falso in relazione ai bilanci
Era normale che ci fossero, grazie alla presenza di Fiat, di Agnelli, una serie di relazioni di reti, di network che toccavano l’Italia attraverso Torino. Cosa che oggi non accade più”. Quindi, “se tu perdi così tanto dal punto di vista delle attività economiche e di diversificazione economica, e al tempo stesso fai comprensibilmente fatica a sviluppare il nuovo, puoi vivere il declino in condizioni di un certo agio se hai buone politiche pubbliche, come abbiamo avuto negli ultimi anni. Ma il declino come grande processo sottostante resta”. Qui Gastaldo incrocia le braccia e prosegue: “La responsabilità che abbiamo avuto come classe dirigente degli ultimi anni è che pur di non parlare di declino – a favore di eufemismi come trasformazione – abbiamo contributo a occultare o imbellire una realtà che invece sarebbe stato meglio chiamare con nome e cognome”. Certo, dice Gastaldo, “i processi strutturali impersonali e legati a grandi movimenti” rendono impossibile distribuire le responsabilità sui singoli. “Il guaio è che se su una parabola strutturale impersonale di medio-lungo periodo si innescano anche degli errori di policies, allora è chiaro che la situazione diventa ancora peggiore”. Vedi l’opposizione alla Tav, che Gastaldo considera solo un “esercizio di autolesionismo tra i più puri”. “Ciò di cui Torino ha bisogno dal punto di vista della sua esistenza è una riforma geografica”. Ovvero? “Anzitutto, io suggerisco di chiamarla Milano-Parigi o Roma-Londra o Napoli-Barcellona anziché Torino-Lione, così si capisce meglio cos’è: un tema del paese, non di Torino e basta, l’asse su cui far transitare le reti di relazione”. Anche perché, dice Gastaldo, è che in assenza di un’apertura verso Ovest e verso Nord, l’unica cosa che Torino può essere “è un modesto cul-de-sac della pianura padana. Chiaramente essere un cul-de-sac non è un particolare grado di distinzione. A quel punto l’unico tipo di relazioni possibili sono quelle orientate verso Est e verso Milano. La storia della crescita della nostra città è legata a una capacità di guardare al di fuori della pianura padana, su archi geografici e di relazione più ampi”. Figurarsi però, i Cinque stelle nell’isolamento ci sguazzano. E non c’è solo quello geografico e ideologico, ce n’è anche uno politico che pesa tutto sulle spalle di Chiara Appendino. La sindaca è isolata nel M5s, non s’è fatta vedere a Italia a Cinque stelle, la manifestazione al Circo Massimo, non ha partecipato alla presentazione del candidato del M5s alle prossime elezioni regionali, Giorgio Bertola. Anche qui per impegni istituzionali per quanto la verità sia un’altra: la Appendino aveva puntato su un’altra candidata, che però ha perso le “regionarie”. La sindaca, insomma, reagisce molto di pancia e ha difficoltà a gestire il rapporto con il partito nazionale. Beppe Grillo attacca il capo dello Stato dicendo che ha troppo potere? Lei il giorno dopo risponde di non essere d’accordo. Ci sono problemi sulle Olimpiadi? Arriva Luigi Di Maio in gran fretta a Torino, ma non per dimostrare vicinanza alla sindaca, bensì per dimostrarle che non è in grado di sedare la rissa nel M5s torinese.
In due anni ha dimostrato di non saper scegliere il gruppo dirigente dell’amministrazione. A partire dal portavoce, Luca Pasquaretta, indagato e caduto sotto il fuoco amico del M5s, che ad agosto se n’è andato ma adesso potrebbe tornare sulla scena, a Paolo Giordana, un ex seminarista convertito alla chiesa ortodossa che ha girato un po’ tutti i partiti dell’arco costituzionale. La presenza di Giordana – nella cui vecchia chiesa sconsacrata oggi c’è un ristorante di sushi – nella prima parte del mandato Appendino descrive bene che cos’è successo a Torino nel 2016. Una parte della città, borghese, industriale, persino culturale o vagamente culturale, magari anche con una certa contiguità al “sistema Torino”, lo stesso che Appendino aveva dichiarato di voler abbattere, al ballottaggio ha scommesso sulla giovane sindaca, cercando sempre di distinguerla dai Cinque stelle, al grido di TtPd (Tutti tranne il Pd). Lei, appunto, “quella brava” in cerca di aiuto e consigli perché contornata da bombaroli. Due anni dopo le cose sono molto cambiate. Appendino si è inimicata parte del suo partito e le categorie. Ma c’è anche un peso giudiziario che rischia di schiacciarla. I fatti di piazza San Carlo – 1500 persone ferite, una donna morta e un’altra paralizzata – sono stati uno spartiacque, un’altra linea di frattura, anche psicologica. Un blocco per l’amministrazione e per Appendino, che è sotto processo. Il 23 ottobre c’è stata la prima udienza preliminare e lei non s’è presentata. La sindaca d’altronde ha qualche problema a farsi vedere in pubblico in occasioni politicamente non sorvegliate. Anche perché le contestazioni non mancano. Nel gennaio scorso è stata contestata al Circolo dei Lettori da esponenti del comitato popolare Lucento-Vallette, altra zona dove il M5s nel 2016 ha preso un sacco di voti. Pochi giorni prima al Collegio Artigianelli residenti, commercianti e comitati del centro si erano riuniti per incontrare la sindaca, ma all’ultimo momento ha deciso di dare forfait, facendo infuriare i partecipanti. A farne le spese è stato il vicesindaco Montanari, che ha parlato di dissenso “montato” ad arte. Dopo quell’assemblea, Montanari ha annunciato la sospensione degli incontri pubblici fino alle elezioni del marzo scorso. Mesi più tardi le cose non sono migliorate. A inizio ottobre è stata fischiata alla premiazione del mondiale del volley, unica autorità a ricevere questo trattamento.
L’inchiesta su San Carlo non è però l’unica. Appendino rischia anche un altro processo, questo per falso ideologico in atto pubblico in relazione al rendiconto 2016 e nel bilancio di previsione 2017. L’indagine è stata chiusa il 24 ottobre e adesso la sindaca rischia il rinvio a giudizio insieme ad altri tre indagati. In caso di condanna, anche solo di primo grado, la sindaca si deve dimettere non solo per le regole dello statuto del M5s ma per effetto della legge Severino. Il primo esposto, quello sul bilancio 2016 che ha fatto partire a cascata quello dei revisori sul bilancio 2017, l’ha fatto partire il capogruppo del Pd Lo Russo insieme a un altro consigliere. Le famose due linee del Pd: una contro la Appendino, una no. In questo isolamento infatti la sindaca ha trovato sponda in Sergio Chiamparino. Il governatore piemontese non l’ha mai attaccata. Stesso discorso la Appendino, che quando deve lamentarsi per il debito del Comune cita sempre Fassino, dimenticandosi però che i 3,3 miliardi lasciati in eredità da Chiamparino sono stati ridotti dall’ex segretario dei Ds a 2,9 miliardi. Cento milioni l’anno circa. “Chiamparino e Appendino sono due debolezze che si tengono insieme”, dice un alto dirigente del Pd torinese raccontando questo strano feeling. Non si attaccano a vicenda per evitare che l’una metta in evidenza le responsabilità politiche dell’altro, e viceversa.
La sindaca insomma è debole. Isolata dal M5s a livello nazionale, isolata dal M5s a livello locale. Così debole che anche quando il ministro della Cultura Alberto Bonisoli deve scegliere un capo del dipartimento dei Beni culturale la scelta non ricade su un torinese come Mario Turetta, direttore del Venaria, che pure ci sperava, ma su altri. E dire che un torinese al ministero della Cultura avrebbe fatto comodo alla città. E mentre Appendino resta sempre più sola, nel vuoto politico spadroneggiano altri. I benecomunisti e i promotori della democrazia. Solo che alla gente di tutta questa democrazia diretta non gliene importa molto, come dimostra l’istituzione delle interpellanze del cittadino, un “privilegio” che di solito spetta ai consiglieri comunali ma allargato anche alle persone comuni. Dal 26 febbraio 2018 a oggi sono state presentate appena 6 ordinanze. Dunque è tutta piena di contraddizioni questa Torino a Cinque stelle. E piena anche di vittimismo. “Dobbiamo smettere di farci scippare tutto da Milano. Penso al Salone del Libro, sul quale abbiamo vinto la battaglia”, ha detto la sindaca qualche giorno fa. “Nessuno nega la forza economica di Milano ma anche il capoluogo piemontese ha le sue eccellenze. La competizione fra territori è normale, ma è necessaria anche la cooperazione: la rivalità è sbagliata, e l’atteggiamento aggressivo del capoluogo lombardo certo non aiuta. Milano non può continuare a volerci scippare tutto”. La competizione fra Torino e Milano è endemica, i torinesi ci nascono, ma questo, spiega Nespolo, “è vittimismo. Ma che discorso è? Le idee sono nell’aria. Se vedo un’idea a Hong Kong e la faccio qua ho rubato qualcosa a Hong Kong? Ma per piacere. E’ che a Milano hanno più intelligenza imprenditoriale, hanno più determinazione, sanno cosa vogliono fare e soprattutto coinvolgono anche le persone che sanno fare”. Torino è a uno spartiacque, dovrebbe puntare ad attrarre investitori. Per questo, spiega Gallina, “bisogna accelerare sui grandi progetti. Ne è stato appena presentato uno, la città della scienza a Grugliasco. Poi c’è il parco della scienza, della salute e dell’innovazione, 600 milioni che arrivano a Torino. Poi c’è un progetto al quale noi teniamo molto, il Manufacturing Technology Center, che è fondamentale per rilanciare il settore della manifattura in ottica 4.0”. Tutto questo, spiega Gallina, serve per l’automotive e l’aerospazio, che a Torino “sono driver dell’industria che qui conta ancora il 25 per cento. Dopo il 2006, Torino ha cambiato faccia e quindi i servizi sono cresciuti tantissimo, però ovviamente dipendono ancora dall’industria e possono godere dell’ondata della città turistica e della città culturale”. Insomma, le mostra del cioccolato sono belle ma da sole non bastano a competere con l’Europa.