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Ridere delle performance gialloverdi può rivelarsi un'imprudenza fatale

Guido Vitiello

Il governo deve farci paura proprio per le sue arie da operetta

Dopotutto, in Italia l’unica cosa seria sono le pagliacciate. Chi dice che il governo fa solo teatro, farebbe bene a interrogarsi su quel “solo”, a frugarci dentro come nel doppiofondo del cilindro di un mago: potrebbero spuntarne molti conigli. Luigi Barzini, che nel 1964 provò a far capire l’Italia ai lettori americani, impiegò decine di pagine a illustrare l’enigma del “perché gli italiani debbano essere attori, commediografi, coreografi e metteurs-en-scène del loro dramma individuale e nazionale”. La teatralità qui non è, come nel resto d’Europa, un paramento cerimoniale che adorna o all’occasione nasconde la nuda sostanza delle cose: è la sostanza stessa. Guai, diceva Barzini, a trascurare questo che è il tratto fondamentale del carattere nazionale. La messinscena “foggia la politica e i disegni politici”. Per gli italiani, infatti, non è mai stato facile ottenere il potere necessario per farsi rispettare. “Che cosa dovevano fare? Hanno inscenato un’imitazione quasi perfetta della potenza e della ricchezza reali. In tempi normali, del resto, quando non scoppiano conflitti, il potere e l’ostentazione del potere possono essere considerati equivalenti”. Ma in tempi meno normali questa equivalenza viene meno: “Può durare per un certo periodo di tempo, magari anche per moltissimo tempo, ma non per sempre. Finisce male. A un certo momento, fatalmente la potenza reale distrugge la potenza simulata e tutto si conclude con una catastrofe”.

 

Perdonatemi se vi ho sciupato il finale dello spettacolo della filodrammatica gialloverde mentre siamo ancora al primo atto, ma vi invito a restare diligentemente seduti in platea, e a prestar caso anche ai dettagli triviali, ai lazzi osceni, agli istrionismi. Anzi: soprattutto a quelli, nel luogo d’elezione della commedia dell’arte. Al culmine della crisi greca Tsipras evocò l’Antigone, e il negoziato prese l’aspetto di un dilemma tragico, di un gioco mortale con la necessità e il destino. Qui capita di assistere a scene meno solenni: ministri e ministrelli che fanno il segno di vittoria dal balcone di Palazzo Chigi, scarpe di finissimo cuoio italico battute insolentemente sui banchi di Bruxelles, grappini delle patrie distillerie offerti dalla Meloni a “Jean-Claude” con ammiccamenti da locandiera della Garbatella. Ma le pagliacciate sono una cosa terribilmente seria, e chi ridacchia del sovranismo “da operetta” farebbe bene a scrutare il doppiofondo anche di quella formula, che Montanelli coniò per il fascismo aprendo la via a mille elusioni, equivoci e rimozioni. Salvemini chiamò la marcia su Roma un’“opera buffa”, Repaci una “goffa kermesse”, eppure lo spettacolo restò in cartellone per vent’anni. Dovrebbe bastarci come monito sulla circostanza che in Italia, quanto meno la situazione è seria, tanto più è probabile che sia grave. Non per caso il capitolo di “The Italians” dedicato al fascismo si intitolava “Mussolini, ovvero i limiti della messa in scena”. Vale la pena rileggerne alcuni passi, per il suono sinistro che danno.

 

Spesso, scrive Barzini, il Duce mentiva machiavellicamente, come tutti i politici; ma più spesso cedeva all’estro genuino del teatrante, in un paese dove la rappresentanza politica si risolve in rappresentazione scenica, in una recita appagante più che in un perseguimento d’interessi: “La forma era tutto, anche per lui, la verità, anche per lui, era ciò che sembrava e ciò che la maggior parte della gente preferiva che fosse”. Gli ripugnava “l’ammissione del fatto che le difficoltà non potevano essere annullate con l’uso abile di parole, con i giochi di prestigio e con i comunicati ottimistici, ma esigevano seri studi, cauti piani e un duro lavoro grigio”. Ne sarebbe morto di noia, e così pure il suo pubblico. All’inizio molti presero sottogamba l’impacciata magniloquenza di quella recita: “Anche i più pessimisti erano certi che egli avrebbe evitato lo show-down, lo scontro tra la sua finta potenza e la vera potenza degli altri”. Non andò così, e “il vuoto tra lo spettacolo e la realtà venne empito alla fine di sangue vero, di rovine vere, di veri morti”.

 

Per fortuna siamo solo al primo atto. Ma sghignazzare potrebbe rivelarsi un’imprudenza fatale, per noi e per gli spettatori d’Europa che assistono allibiti dal loggione con i loro binocolini. Perché proprio questo nostro piglio di commedianti, questi voli retorici e melodrammatici che non si fanno rallentare dall’attrito con la realtà, questo non prender nulla sul serio fino in fondo, è ciò che ci dispone agli esperimenti più azzardati, che ci fa arrivare d’anticipo sul resto del mondo, che ci fa produrre più storia di quanta riusciamo a consumarne sul mercato locale. Nel nostro calendario non cade mai il 18 brumaio: la prima volta è già tragedia e farsa.

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