Il direttore della Stampa Maurizio Molinari (Foto LaPresse)

Solo un giornalista-analista di esteri poteva spiegare bene il populismo italiano

Francesco Cundari

“Perché é successo qui” di Maurizio Molinari e la nostra miopia politica

L’Italia è il primo paese europeo a essere guidato da un governo populista, espressione di una maggioranza composta interamente da partiti populisti, e in quanto tale, si dice, oggetto di studio per il mondo intero. Ma non per l’Italia, dove questa peculiarità è assai meno analizzata che altrove. Certo, articoli e libri dedicati all’ascesa del populismo non mancano, ma sono pochi quelli che mettano al centro tale caratteristica distintiva del nostro paese e che al tempo stesso la colleghino a quel fenomeno mondiale di cui il governo gialloverde appare la manifestazione più estrema.

 

A colmare la lacuna provvede ora il nuovo libro di Maurizio Molinari, direttore della Stampa dal 2016, l’anno del referendum sulla Brexit e dell’elezione di Donald Trump, esperto di politica internazionale e a lungo corrispondente dagli Stati Uniti. Dunque non sembra un caso che sia proprio lui il primo a porre la domanda che dà il titolo al libro: “Perché è successo qui” (La nave di Teseo). Vale a dire perché quel populismo che sta scuotendo le democrazie occidentali fin nelle loro più antiche certezze ha conquistato il potere in misura così completa, per la prima volta, proprio nel nostro paese. A questa domanda il libro cerca di rispondere intrecciando le voci dei protagonisti e i dati dei ricercatori, le paure ancestrali dei comuni cittadini e i nuovi strumenti tecnologici con cui quelle paure vengono manipolate.

 

E lo fa attraverso un racconto dell’Italia gialloverde scritto con il linguaggio e lo stile dell’inchiesta sul campo, ma al tempo stesso senza mai dismettere le categorie proprie dell’analista di politica internazionale. Un’impostazione che forse spiega anche qualche forzatura, ad esempio nel rappresentare il quadro politico italiano come diviso tra partiti populisti (M5s e Lega) e “partiti centristi”, espressione con cui l’autore si riferisce ripetutamente a Partito democratico e Forza Italia. Ma non è solo questione di definizioni. Molinari sembra infatti accettare lo schema secondo cui ci sarebbero da un lato i partiti tradizionali (Pd e Forza Italia), responsabili se non altro di non avere visto il montare della rabbia popolare per le crescenti diseguaglianze sociali, e dall’altro i partiti populisti, capaci di intercettare e interpretare quella rabbia. Ma è una lettura che, almeno in Italia, meriterebbe più di una puntualizzazione, considerando che il partito di Matteo Salvini è stato al governo assai più a lungo del Pd, ed è anzi il più antico e tradizionale dei partiti oggi in campo (sia pure dall’identità attualmente in via di rapida ridefinizione).

 

E molto ci sarebbe da dire anche sull’arruolamento di Forza Italia tra i partiti tradizionali minacciati dall’onda populista che potrebbe travolgere la democrazia liberale, dopo vent’anni passati nel novero delle forze populiste accusate di volerne sovvertire regole e consuetudini. Quanto infine al Pd, se la sua colpa è non aver visto le diseguaglianze che avrebbero alimentato la rabbia populista, questa critica – certamente fondata – appare però contraddetta dal successivo riconoscimento dei positivi risultati dei suoi governi e in particolare del governo Gentiloni, con il quale il Pd si è presentato alle elezioni (va detto che una simile ambiguità è molto diffusa nelle analisi del voto del 4 marzo, e meriterebbe un dibattito a parte).

 

Ma questi, purtroppo, sono dettagli. Il quadro generale, e non poco angosciante, è dato da quel movimento internazionale che vede l’Italia, curiosamente, al tempo stesso alla sua testa e alla sua coda. A valle dei due momenti decisivi dell’esplosione populista (Brexit e Trump), ma anche a monte, se pensiamo a quanto l’affermazione del magnate americano ricordi da vicino l’ascesa di Silvio Berlusconi nel lontano 1994. È dunque tanto più significativo che siano così i pochi gli osservatori che nel nostro paese cercano di analizzare e raccontare il fenomeno populista all’interno di questo più ampio, e decisivo, contesto internazionale.

 

Una possibile spiegazione è che articoli e libri che in Italia si occupano dell’argomento lo fanno quasi sempre da una prospettiva diversa e inconciliabile con questo sfondo: a partire cioè dall’idea che Lega e Cinque stelle rappresentino due fenomeni politici radicalmente diversi e non sovrapponibili, che solo l’insipienza del Partito democratico avrebbe spinto, quasi loro malgrado, a convivere. Una lettura che assomiglia a un esorcismo, o più semplicemente a un alibi. In poche parole, l’egemonia populista in Italia non è oggetto di analisi da parte di osservatori e commentatori perché, con rare eccezioni, essi ne sono direttamente e intimamente partecipi. Per averne conferma, basta dare una scorsa ai titoli della saggistica politica di qualsiasi libreria, dove si passa dal più semplice “Chiamiamoli ladri” (Vittorio Feltri), alle diverse gradazioni dell’horror – “Avvoltoi”, “Sanguisughe”, “Vampiri” (Mario Giordano) – fino al programmatico “Se li conosci li eviti – Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, ignoranti, voltagabbana, fannulloni del nuovo parlamento” (Marco Travaglio e Peter Gomez).

 

E si potrebbe continuare con fior di costituzionalisti, filosofi e giornalisti di ogni tendenza politica e culturale, di destra e di sinistra, progressisti e conservatori, moderati e radicali, perché ormai da decenni questo è il lessico, il modo di presentare, analizzare e raccontare la politica nel nostro dibattito pubblico (ma ci vorrebbe un altro articolo). Ecco “perché è successo qui”. Ed ecco perché, oggi, tanti commentatori hanno qualche comprensibile difficoltà nello spiegare al mondo le ragioni dell’egemonia populista in Italia. Ed ecco perché solo un giornalista che si è sempre occupato di politica internazionale, ed è dunque consapevole della reale portata del fenomeno, poteva azzardare la domanda.

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