La foglia di Fico
Un dissenso molto diplomatico: nel M5s e nell’opposizione a Salvini (con un occhio al Pd). Ma quanto conta il presidente della Camera?
Uniti e compatti, chiusi a testuggine come un esercito romano: il vicepremier Luigi Di Maio ha sfoderato la metafora militaresca per arringare le folle parlamentari a Cinque stelle percorse da dubbi sulla via del dl sicurezza. Ma essere un dissidente a rischio espulsione, contenimento o autoesilio (modello Elena Fattori, Matteo Mantero o Gregorio De Falco) è nulla in confronto alla difficoltà di essere, oggi, Roberto Fico, presidente della Camera ed eterna riserva teorica per malpancisti interni del M5s – ora però più concretamente avviati verso il sostegno all’Alessandro Di Battista delle Americhe – ma soprattutto eterna speranza di chi, dal Pd e in generale dalla sinistra, pensa che Fico sia, per Weltanschauung e per indole, l’uomo perfetto per traghettare i Cinque stelle su lidi extraleghisti o addirittura per traghettare se stesso, da papa straniero, nella gauche intristita dai risultati del 4 marzo, emancipandosi dalle uscite di Matteo Salvini. Ma c’è un “ma”: Fico stesso, noto per essere un dissidente molto sottomarino, come notavano un anno fa gli esegeti di mondi a Cinque stelle vedendolo opporsi, alla festa nazionale del M5s a Rimini, alla linea di Luigi Di Maio in nome dell’ortodossia grillina (più di sinistra), ma in modo talmente felpato da poter essere definito persino afono, Fico, si diceva, non può esporsi più di tanto perché ha un ruolo istituzionale: era presidente della Vigilanza Rai, e ancora non si poteva immaginare che sarebbe assurto a ben altra presidenza, quella della Camera con governo gialloverde.
Proprio per la carica che ricopre, è nella posizione ideale per dialogare con tutti: malpancisti interni e aspiranti amici esterni
E qui si spalancano le infinite possibilità. Fico, proprio per la carica che ricopre, è nella posizione ideale per dialogare con tutti: malpancisti interni e aspiranti amici esterni, dicono i sostenitori dell’ipotesi “Roberto Fico cavallo di Troia della sinistra nel M5s”. Oppure: Fico, proprio per la carica che ricopre, può esercitare la moral suasion sui contraenti leghisti del contratto, evitando la rottura, dicono i sostenitori dell’ipotesi “Roberto Fico casco blu dell’alleanza populista-sovranista”. Eppure nessuna di queste ipotesi, pur parendo verosimile, si attaglia del tutto alla situazione del grillino d’antan in questione, napoletano quarantaquattrenne che a Napoli ha mosso i primi passi da Cinque stelle (è fondatore di uno dei meet-up delle origini sotto al Vesuvio), dopo una gioventù rifondarola (Rifondazione comunista), con viaggio durato lo spazio d’un mattino nell’orbita bassoliniana (poi detestata). E insomma, l’ex studente del liceo Umberto I, laureato in Scienze della comunicazione, ex impiegato in un call center Vodafone ed ex quadro nel settore informatica di un’azienda turistica, è passato dall’essere impalpabile punto di riferimento dell’opposizione interna a Di Maio (i cronisti ricordano Fico dire, sempre a Rimini, nel 2017, che “Di Maio è capo della forza politica prevista dalla legge elettorale, ma non di tutta la vita del Movimento”) all’essere evanescente testa di ponte dell’opposizione intragovernativa a Matteo Salvini. Soprattutto in tema di immigrazione e sicurezza, con picco di sperequazione lessicale qualche giorno fa, quando, al Salvini che dal quartiere San Lorenzo minacciava la ruspa, faceva eco un Fico che, a proposito del quartiere San Lorenzo, ribadiva la forza dell’amore. E se c’è chi, dai Cinque stelle, ha visto a un certo punto in Fico un altro possibile Federico Pizzarotti, sindaco ribelle ex grillino di Parma, c’è anche chi, tra i frequentatori dei Palazzi, intravede per Fico un futuro da Gianfranco Fini, ex leader di An con infelice cursus da ammutinato antiberlusconiano, o un percorso da Marco Follini, ex leader Udc transitato per la fondazione del Pd, fino alla quasi invisibilità e infine al pentimento.
I nemici interni al M5s felici di vederlo dov’è, in una posizione talmente alta e istituzionale da renderlo in pratica inoffensivo
Essere Roberto Fico, dissidente diplomatico, in tempi gialloverdi: questo è il problema. Ma il problema sta anche, a specchio, nella sinistra che a Roberto Fico guarda con trepidazione. Riuscirà a emanciparsi almeno mediaticamente dall’ingombrante presenza governativa di Salvini?, questo è il quesito. Quesito tuttavia monco: anche dovesse farlo, chi garantisce che lo scarto a sinistra porti poi a qualcosa di concreto, come un avvicinamento reale ai democratici? Intanto, i fatti: il Roberto Fico che in settembre compare, per la prima volta dopo quindici anni (parole sue) nel parterre di una festa dell’Unità, a Ravenna, sullo stesso palco dell’ex ministro dei Trasporti Graziano Delrio, poi capogruppo pd alla Camera. Sono venuto perché mi avete invitato, diceva, apparendo però, come si sperava presso le platee democratiche, molto critico nei confronti del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini. “Dalla nave Diciotti dovevano scendere tutti, da subito”, diceva Fico, mostrandosi anche, rispetto alla linea dei paesi di Visegrad sull’immigrazione, saldamente ancorato al concetto di accoglienza (per quote). Ne aveva anche per il presidente francese Emmanuel Macron, Fico: “Non abbiamo grande scelta dopo quello che ha fatto a Ventimiglia, Bardonecchia e in Libia. Non ci sono da un lato i barbari e dall’altro le persone perbene”. Dell’immigrazione, era il monito del presidente della Camera di fronte a un non nemico pubblico pd, “io non tollero che si parli con la pancia, senza dare dati seri. E che non si racconti chi sono queste persone, perché partono… dobbiamo parlare con molta intelligenza, non polarizzando gli scontri. Negli scontri tra ‘tutti a casa’ o ‘accogliamoli’ rimangono in mezzo le persone”. E anche oggi, all’indomani dello stupro e dell’assassinio della sedicenne Desirée Mariottini nello stabile abbandonato a San Lorenzo, Fico, mentre Salvini ribadisce il pugno di ferro contro le “bestie”, parla di “partecipazione” e “coesione sociale” come “mezzi fondamentali per costruire tutto il resto della comunità solidale e un’economia sana e forte”.
Fatto sta che i suoi colloqui anche informali (anche un caffè) con uomini pd vengono inseriti, a Montecitorio, nella categoria “possibili slittamenti dall’asse gialloverde”. In questo quadro Graziano Delrio è tuttora considerato, nei Palazzi, uno degli uomini-cardine del dialogo con Fico. Ma anche il segretario dimissionario del Pd Maurizio Martina ha mantenuto un canale, apertosi forzosamente qualche mese fa, nella primavera dello scontento in cui il Pd, dopo la sconfitta elettorale e in qualità di principale partito del centrosinistra, veniva interpellato sul governo ancora in nuce, su impulso del Quirinale, proprio dal presidente della Camera. E lì già si poteva vedere, sempre in nuce, tutta la complessità dell’operazione “cavallo di Troia”, e non soltanto perché Fico, pur disponibile all’ascolto per mandato e per convinzione, non pareva intenzionato a discostarsi troppo dalla linea Di Maio (della serie: è troppo presto per qualsiasi cosa), ma anche perché la verifica della possibilità di un’eventuale maggioranza Cinque stelle-centrosinistra, caldeggiata dall’ex ministro della Cultura Dario Franceschini, veniva stroncata dai fatti nonché dalla base pd su internet, al grido di #senzadime (“non ho mai avuto, e come me altri, alcun punto di convergenza con il M5s”, scriveva per esempio la dem Caterina Coppola, “né dal punto di vista morale né circa i temi. Chi ha intenzione di fare un governo con Di Maio lo dica. Se la nuova segreteria vorrà farlo, lo faccia, ma, per quanto possa valere, senza di me”). E oggi, di fronte alla paura e alla voglia – per dirla con Claudio Baglioni – di far cadere il governo (per il Pd non sarebbe tutto oro, vista anche la condizione precongressuale e sondaggistica in cui versa), Roberto Fico appare talmente vago, nella sua opposizione interna a Salvini, da risultare adottabile a distanza senza timore di scossoni prematuri. Motivo per cui, si sussurra a Roma, il presidente della Regione Lazio e candidato al congresso pd Nicola Zingaretti, che a livello locale ha aperto il suo mandato “dialogando sui fatti” con la Cinque stelle e sua ex concorrente Roberta Lombardi, insiste sull’idea del “non allearsi con i Cinque stelle, ma parlare con il nostro popolo che li ha votati”.
Un futuro da ribelle che tiene il punto come Pizzarotti, da ammutinato sconfitto come Fini, o da invisibile come Follini?
Gira che ti rigira, la presenza sullo sfondo del presidente della Camera antisalviniano ma fedele al movimento, emancipato ma anche no, precipita nell’interrogativo: “Quanto peso ha davvero Roberto Fico, come dissidente interno?”. Perché si torna sempre lì: se proprio uno deve dissentire, può farlo sì come Paola Nugnes, senatrice anti decreto sicurezza che, sulla falsariga di Fico, non vuole andare sempre più a destra con Salvini, ma può anche attendere che Di Battista, come si è detto, prenda l’aereo di ritorno dal Sudamerica (se proprio uno deve dissentire, insomma, nel movimento dove il dissentire è ontologicamente tabù, tanto vale farlo quando tornerà in primo piano il Dibba campesino che da Facebook si esprime da mesi sui massimi sistemi, con toni di anti liberismo e anti sovranismo che potrebbero tornare utili in caso di frattura tra gialli e verdi). E se è vero che Fico su carceri, diritti e immigrati è molto lontano da Salvini, è anche vero che il presidente della Camera, grillino “di sinistra”, è stato messo alla presidenza della Camera con il plauso dei nemici interni al M5s, felici di vederlo in posizione talmente alta (e istituzionale) da renderlo in pratica inoffensivo.
Con Delrio alla festa dell’Unità di Ravenna. Le polemiche sulla nave Diciotti e con Macron. I canali aperti con i democratici
E i corsi e ricorsi riportano ai giorni di turbolenza Rai durante la legislatura precedente, quando all’interno e all’esterno del M5s si guardava a Roberto Fico, presidente della Vigilanza, come a un possibile baluardo contro le mire espansionistiche dei partiti. E però, diceva allora a questo giornale il capogruppo pd in Vigilanza Michele Anzaldi, mettendo in luce l’ossimoro del pasionario muto: “Per parlare parla, Fico, uno comunque onesto e serio, solo che comunica in altro modo: lo fa con modi così garbati ed educati da avere più successi con noi ‘nemici’ in Vigilanza che nella lotta alla casta Rai…” (da destra, intanto, Maurizio Gasparri lo definiva “vigilante dormiente”).
Oggi è un altro giorno, ma l’ossimoro persiste. Vediamo Fico che parla d’amore e non di ruspe, di accoglienza e non di respingimenti, di istruzione e formazione, diseredati e vitalizi. Ma quando qualcuno gli fa notare le divergenze di vedute tra lui e Salvini (è successo mentre Fico era intervistato da Riccardo Iacona a “Presa diretta”, il 24 settembre scorso), il presidente della Camera, più che affondare il pugnale, lo ritira: “Si dibatte… il dibattito è aperto”. E se su Facebook, il 19 ottobre, Fico scriveva “discutere e confrontarsi è normale, allo stesso tempo però quello che non sta nel contratto – come il condono – non va bene al Movimento”, sul palco di “Italia 5stelle”, a Roma, due giorni dopo, lo stesso Fico sceglieva l’appeasement, anche se leggermente sporcato da una polvere di dubbio: “Non è sempre stato facile, ci siamo presi la responsabilità della formazione di questo governo nato sulla base di un contratto, non di un’alleanza, e che si muove entro il filo sottile degli obiettivi stabiliti. Qualcosa ci piace molto, qualcosa meno, ma continuiamo ogni giorno nel nostro impegno per i beni comuni e i diritti delle persone avendo ben chiara la nostra identità, tenendoci saldi ai valori e allo spirito che ci hanno spinto a iniziare questa avventura”. E nel silenzio del Circo Massimo risuonava a un certo punto una parola – “coraggio!” – rivolta agli altri, ma forse un po’ anche a se stesso.