Luca Zaia, la sentinella del nord
Il governatore del Veneto raccoglie e diffonde il lamento degli industriali verso la linea gialloverde. Perché Salvini intenda
Paghiamo molte tasse, ci aspettiamo una risposta: il concetto è lapidario, ma in tempi di governo gialloverde (oscillante tra gialli e verdi) non è scontato l’esito. E però dipende da chi pronuncia la frase, in questo caso detta, nei giorni duri dell’emergenza maltempo, da Luca Zaia, governatore del Veneto al secondo mandato nonché leghista cosiddetto “tradizionale” (varianti: “Doroteo”, “furbo”, “moderato”, “pragmatico”). Ed ecco dunque Zaia fare appello al governo in cui siede, da vicepremier e ministro dell’Interno, il gemello diverso Matteo Salvini, agli antipodi per approccio, indole e storia, tanto da sembrare di un’altra epoca, se non proprio di un altro partito. E l’appello di Zaia, che alcuni nei Palazzi hanno letto come monito, puntava al grande finanziamento per rimediare ai danni e alla devastazione portata dalla pioggia e dal vento che aveva sradicato un intero bosco sul crinale di una montagna, e a un’ordinanza sullo stato di emergenza e alla nomina a commissario.
È finita con i milioni di euro (prima tanti, poi di meno) annunciati da Salvini per la regione che deve ricostruire cento chilometri di strade e mettere un cerotto alla rovina di centomila ettari di boschi, e però Zaia ha di nuovo fatto appello o monito che dir si voglia: “Il segnale è importante, ma se le cifre sono queste io le considero soltanto un acconto”. E a chi ha provato a far balenare un rischio di gestione non perfetta dei finanziamenti con qualche post su qualche bacheca Facebook che poteva anche in un certo senso riferirsi alla parte gialla dei gialloverdi, Zaia ha risposto con un sempre lapidario “abbiamo già avuto un test, quello del 2010, e fino all’ultimo centesimo è andato ai territori. Punto. Se qualcuno poi vuole fantasticarci sopra vada in Procura, non sui social network, almeno vediamo faccia, nome e cognome”.
“Se le cifre sono queste, le considero un acconto”, ha detto al governo che stanziava aiuti per il maltempo
Flashback: sono giorni d’estate, il maltempo è soltanto una lontana, vaga minaccia che come ogni anno potrebbe colpire le terre del nord-est. Eppure il nord-est è inquieto: nord-est industriale, quello che ha votato Salvini e che vota Lega da molti anni. C’è il decreto dignità appoggiato sul tavolo del neogoverno, e c’è Zaia che raccoglie il malcontento degli imprenditori, concordi nel criticare la linea di “quello che non ha mai lavorato in vita sua” (leggi: Luigi Di Maio, l’altro vicepremier e ministro del Lavoro). Dicono gli imprenditori che prima la Lega parlava di politica industriale, non di decrescita felice. Di come far diventare tutti più ricchi, dipendenti compresi, e non di come rendere insicuri anche i posti di lavoro considerati sicuri. Di futuro, e non di “manutenzione straordinaria”, come dice, intervistato da Panorama, Alberto Baban, ex presidente della piccola industria di Confindustria, mentre Matteo Zoppas, discendente dell’omonima dinastia e vertice degli industriali veneti, si spinge pur diplomaticamente a dire che, essendo il Veneto “una delle locomotive che trainano il paese”, gli industriali si sarebbero aspettati “una misura economica più equilibrata”.
E poi, nel bel mezzo dell’agosto di sventura italiana (crollo del ponte Morandi a Genova), le forze produttive venete si rammaricano di veder finire nel cassetto i proclami elettorali sul come rendere lo stato meno ingombrante, a favore di ventilate mezze statalizzazioni e propaganda del “no a tutto” (leggi: frasi sparse di Danilo Toninelli, ministro dei Trasporti che ha spesso dato l’impressione di vedere il diavolo all’angolo di ogni progetto e impalcatura). E Zaia, dietro le quinte ma al tempo stesso in prima linea, ci mette la firma: “Ci auguriamo che il governo realizzi il contratto Lega-M5s, ma il nostro contratto con gli elettori vale di più”, dice, definendosi “l’amministratore che ha rimesso in moto la più grande opera pubblica italiana” (Pedemontana veneta), e specifica: “Dire che dietro ogni cantiere c’è un ladro è propaganda. Le infrastrutture sono un banco di prova”. E ai Cinque stelle schierati preventivamente contro ogni grande opera (e a Salvini per conoscenza) fa capire che il nord-est resta lì, contro lo spirito del tempo grillino e a sentinella della modernità sedotta forse temporaneamente dall’Eldorado passatista targato M5s e Casaleggio Associati (modernità con tasse in calo e pochi legacci, possibilmente).
A Roma come ministro, a cavallo nello “Zaiastan” da governatore, guardando al suo mito (l’imperatore Adriano)
Tuttavia Zaia al passato torna con il ricordo, da figlio di famiglia contadina del trevigiano, operosa e numerosa: gente che ai bambini insegnava presto a distinguere le stagioni da un’ombra che cambia e dall’odore di erba al mattino, cose perdute che il governatore del Veneto vorrebbe fossero recuperate nelle scuole, come dicono quelli che lo conoscono fin dai tempi in cui era istruttore di equitazione ma anche per nelle discoteche (“da lì forse arriva”, dice un conoscente burlone, “la mania per i capelli un po’ lunghi tirati indietro”, abitudine che però Zaia attribuisce alla necessità di domare i ricci con abbondanti dosi di acqua fresca, come raccontò un giorno a Stefania Rossini sull’Espresso). E insomma dal cosiddetto “Zaiastan” percorso a cavallo, anche con vecchio destriero quasi trentenne, Zaia è arrivato alle porte di Roma in senso non soltanto metaforico – è già stato ministro dell’Agricoltura nel governo Berlusconi IV, e c’è chi lo vorrebbe rivedere in lizza in caso di rimpasto.
E tanto poco è metaforica la sua presenza nell’aria romana, che il vicepremier Salvini, a Cernobbio, come ha raccontato Valerio Valentini su questo giornale, aveva fatto pensare ai malpensanti leghisti (e non) di voler spedire Zaia lontano, direttamente a Bruxelles, in un futuro sovranista e in qualità di commissario europeo per le stesse materie agresti di cui si era occupato con successo. E nel Veneto che nel 2016 ha votato “no” al referendum costituzionale di Matteo Renzi e nel 2017, con il governatore a fare da paladino, “sì” al referendum per l’autonomia – si staglia ora la sagoma di uno Zaia mansueto fino a un certo punto, anche in memoria di quel 2017 in cui si manifestò proprio al nord la prima forte saldatura di fatto Lega-Cinque stelle. E siccome l’esperienza insegna, è al nord che si contano già molti pentiti.
I giorni delle critiche al decreto dignità da parte dei ceti produttivi del nord-est che vedono in Di Maio “quello che non ha mai lavorato”
E però Zaia la “ditta” per così dire la difende, e dalla “ditta” comunque è difeso fin dai tempi della lotta per il predominio regionale con l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, finita nel 2015 con l’allontanamento dalla Lega del medesimo (“non si può lavorare per un partito alternativo…”, diceva allora Salvini, “non si possono alimentare beghe, correnti o fazioni. Se Tosi insisterà nel volersi candidare contro Zaia, magari insieme ad Angelino Alfano e a Corrado Passera, per aiutare la sinistra, penso che ben pochi lo seguiranno”). E così, nel momento in cui, nell’estate del 2018, il decreto dignità faceva capolino come bersaglio del borbottìo anti contratto gialloverde, Zaia si trovava a dover difendere il vicepremier e ministro dell’Interno pubblicamente e a gran voce, dalla tribuna del Festival del Cinema di Venezia dove volentieri si reca ogni anno, contravvenendo alla disciplina antimondana seguita durante gli altri mesi con la moglie.
Ed era così che, in una sera ventosa di fine agosto, davanti al Casinò, a ridosso della piattaforma da aperitivi e cocktail pre proiezioni aggettante sul mare, Zaia rispondeva per le rime a Michele Riondino, attore e padrino della rassegna cinematografica che si era detto “felice di non incontrare Salvini” (“sono contento di non incontrare il ministro dell’Interno né altri rappresentanti del cosiddetto governo del cambiamento. Salvini non mi rappresenta e non rappresenta la maggioranza di quelli che hanno votato Cinque stelle. E lo dico da elettore dei Cinque stelle”, scandiva Riondino, rincarando a favore di telecamere: “Chi ha votato Cinque stelle non si sarebbe mai messo con la Lega. Non avrei mai accettato il contratto di governo con la Lega e non avrei mai votato Cinque stelle se avessi saputo che loro lo avrebbero fatto”).
“Ci auguriamo che il governo realizzi il contratto Lega-Movimento 5 stelle, tuttavia il nostro con gli elettori vale di più”
E mentre Salvini rispondeva che invece avrebbe volentieri visto faccia a faccia l’attore, per conoscerlo e magari convincerlo, Zaia si affidava al dialetto veneto che dice di avere sempre in testa al posto dell’italiano, proprio come l’imperatore Adriano – suo mito – aveva in testa il greco al posto del latino: “Do schei de mona in scarsea no fa mai mal. Questo vecchio e saggio detto veneto significa che nella vita bisogna essere umili e saper anche tacere senza voler sempre fare il primo della classe. Mi dispiace per Riondino e per le sue dichiarazioni sul ministro Salvini, ma sarebbe stato lo stesso rispetto a qualsiasi politico senza eccezione alcuna. Ha rovinato la sacralità della Mostra”. “Forse Riondino non sa”, diceva Zaia, “che noi non abbiamo mai politicizzato questa manifestazione e i politici non sono mai saliti sul palco… E’ disdicevole che lo abbia fatto uno che non tiene affatto in considerazione che proprio il tollerante Veneto gli ha affidato l’incarico, pur conoscendo bene le sue idee.
Insomma il tollerante Veneto ha dato un prestigioso incarico all’intollerante Riondino, il quale, affermando ‘lo eviterei se lo incontrassi’, non offende in realtà Salvini, ma tutti i cittadini che ha votato scegliendo questo governo. Ricordiamogli magari che siamo in democrazia. Se pensa di venire in Veneto a fare l’eroe ha trovato il posto sbagliato. E visto che a volte Riondino cita Pasolini, gli ricordo un altro famoso pensiero a questo grande intellettuale: ‘Chi si scandalizza è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato’”. Ed è chiaro che Zaia con il mondo del cinema ha avuto il suo bel da fare, se è vero che, già nel 2011, si è trovato a polemizzare con Francesco Patierno, regista di “Cose dell’altro mondo”, film in cui si descrive, seppure per iperbole, un nord-est pencolante sull’orlo del razzismo.
“Non siamo zulù”, aveva detto il governatore al regista, ricordando en passant che a casa sua si era sempre praticata “la solidarietà”; che i suoi genitori, come tanti veneti, avevano dato da mangiare, all’occorrenza e volentieri, anche al “venditore marocchino di tappeti” e che a giudicare preventivamente non si fa un bel servizio a se stessi e agli altri. Idea, questa, che a Zaia è tornata utile, capovolta, al momento di prefigurare, sempre sull’Espresso, a monte della campagna elettorale per le Politiche, il futuro dei Cinque stelle – e però la profezia di sventura si è rivelata fallace: “A loro do massimo sei mesi”, aveva detto il governatore, “hanno basato tutto sul fatto che gli altri sono ladri e deficienti, ma nel momento in cui vanno a governare passano da giudicanti a giudicati. Abbiamo già visto com’è andata a Roma. Sembrava che dovesse salire al Campidoglio una Cenerentola su una carrozza fatata, e invece ogni giorno c’è una nuova polemica”. E guai a paragonare, a quei tempi, i grillini ai primi leghisti: Zaia subito insorgeva al grido di “ma noi eravamo un partito monolitico” (con Umberto Bossi).
Fatto sta che i Cinque stelle sono al governo, Salvini pure (e Zaia ha sempre ribadito che mai gli remerebbe contro) ed è il nord-est a temere vagamente, per sé, lo scenario “Cenerentola senza zucca”, con i verdi inceppati sulla via gialla all’economia. E se è presto per capire se le sentinelle industriali hanno suonato l’allarme a ragione, non è così presto per vedere in chiaroscuro lo sforzo profuso dal governatore per riportare la Lega a monte, nel centrodestra d’antan (liberista) che mai vorrebbe finire sul pianeta Gaia, tra avatar in attesa di reddito di cittadinanza e odiatori internettiani di padroni, padroncini e partite Iva. Nel frattempo, non si sa mai, Zaia ha l’aria di chi continua a essere convinto che – come insegnano gli imperatori romani e Giulio Andreotti – a pensare male (in dialetto? ) magari si fa peccato, ma spesso ci si indovina.