Pastorale democristiana
Riti, miti, usi e costumi della razza dominante nella Prima Repubblica. Il nuovo libro di Filippo Ceccarelli
Filippo Ceccarelli è il Wes Anderson di Montecitorio, e questo libro, “Invano”, mille pagine di ricognizione su Prima, Seconda, Terza Repubblica, e quello che ne resta, sono il catalogo di una bellissima mostra (di mostri) che non sfigurerebbe nei migliori Guggenheim e Whitney del mondo. “Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, è il sottotitolo, del librone Feltrinelli, ma le pagine più gloriose sono quelle sul culto democristiano.
Una ricognizione psico-antropologica sul popolo che guidò l’Italia dal Dopoguerra al Benessere: la Dc, la Balena bianca, viene qui musealizzata con piglio da junior o senior curator. “Mi sono sorpreso tante volte a sognare un museo della Dc”, scrive infatti Ceccarelli, che qui viene fuori proprio come il regista americano dei Tenenbaum, che ha appena inaugurato al Kunsthistorisches Museum di Vienna una sua mostra, scegliendo “à la carte” dalle opere del museo, in una catalogazione mentale di tanti sterminati materiali dai magazzini. Come fa poi Ceccarelli, attingendo a un archivio infinito – il suo, donato alla Camera ma già interiorizzato – mettendo in fila tutte le sfumature di potere italiano in un catalogo di questa mostra che si adorerebbe vedere. E si vede: si vedono proprio questi democristiani, che sono gli egizi della politica italiana, il piatto forte di qualunque museo: “I democristiani scendono dalle berline mostrando gamboni, piedoni, occhiali dalle enormi montature. Sorridono all’obiettivo con un’aria lievemente stralunata”. I democristiani, “democristi”, nati nel 1946, morti nel 1993, ma forse anche prima, qui vengono studiati e catalogati tipo National Geographic.
Ci sono le tribù: i democristiani bresciani, “liberali, illuminati, solidaristi della Brescia di monsignor Montini e delle grandi famiglie dei Trebeschi e dei Bazoli”. Esponente di punta Mino Martinazzoli, avvocato di provincia, curatore fallimentare della Dc, dolentissimo, colto, fumatore, che parla in dialetto stretto coi collaboratori, esperto di Gadda, Manzoni, e Busi (che ricambia: “Ha una bella faccia da capo Sioux”). Martinazzoli, che avrebbe odiato i tempi d’oggi, era famoso a Brescia perché non andava alle inaugurazioni delle piccole e grandi opere – quelle col vescovo e il taglio del nastro – ritenendole volgari (le inaugurazioni, non le opere). Che avrebbe detto oggi delle foto a torso nudo di Salvini? Disse invece della Dc: “La nave è ormai in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è la rotta, ma ciò che mangeremo domani”. Il simmetrico esistenziale della Dc bresciana era quella romana, coi soprannomi animaleschi-tribali: la Volpe argentata (Clelio Darida), lo Squalo (Vittorio Sbardella), il Gattone (Amerigo Petrucci); c’erano poi il Cobra, il Monaco, Luparetta e Pennacchione (l’ex sindaco di Roma andreottiano Nicola Signorello).
E poi la Dc napoletana dei Gava, padre e figlio, quest’ultimo dotato, nel palazzo di Posillipo, di un leggendario cubicolo in cui albergavano i notabili locali campani, per essere sempre a portata di mano, dietro una porta segreta. C’è la Dc avellinese, con De Mita infaticabile amante del tressette, che gioca per dieci ore consecutive sul volo di stato che lo porta da Roma a Washington a Los Angeles per le celebrazioni del piano Marshall, portandosi incessantemente appresso come partner il presidente delle Case popolari di Avellino, Antonio “Totonno” Pagliuca, detto Sputazzella, e quando questi non è disponibile, il capo dei Vigili del fuoco, Elveno Pastorelli. C’è la Dc veneta di Mariano Rumor, che a fine carriera, dimenticato da tutti nonostante le cinque volte da presidente del Consiglio, esce un giorno da un hotel e vedendo una berlina nera che si ferma, si infila dietro. “Questa non è la tua macchina, nonno!”, gli dice una voce non rispettosa di giovinastro. E lui: “mi dispiace molto, sono l’onorevole Rumor, ho sbagliato vettura, può capitare”.
I “democristi”: nati nel 1946, morti nel 1993, ma forse anche prima, qui vengono studiati e catalogati tipo National Geographic
“Belli non erano”, scrive Ceccarelli, di questi democristiani. Però sapevano stare al loro posto e non si offendevano mai, mica come oggi che l’ultimo viceministro sbrocca su Twitter perché gli si è troncata una precipua argomentazione. “Voialtri vi siete creati nella fantasia un tipo di democristiano che non sempre corrisponde al vero”, dice Fanfani a Montanelli. “Anemico, scivoloso, evasivo, avido e lumacone”. Volevano un po’ di rispetto. Non sempre l’avevano, anzi quasi mai. “Un tapiro, un Topo Gigio, un gufo, un naso da pulcinella”, scrive Camilla Cederna di Leone presidente della Repubblica. Oggi un Toninelli dopo la foto con filtro e tutto e le ore di palestra sbroccherebbe per molto meno. Non c’erano le Insta stories, ci si vestiva con ciò che c’era in casa: borselli, mocassini neri, camicie a scacchi per il tempo libero, sciarpe bianche e pochette bianche “che fuoriescono dal taschino un centimetro esatto”, come massima summa di dandismo. Erano anche fisicamente svantaggiati, i democristi, nell’epoca pre-fitness. Pile di elenchi telefonici per arrivare a una statura decente (Fanfani). “Brillantina, teste lucide e tanta, tanta forfora”. Però una serie sulla Dc, un Mad Men forforoso, lo si guarderebbe tanto volentieri.
O un blob tipo Vezzoli sui personaggi dc che passavano direttamente nella commedia all’italiana. Ugo Tognazzi faceva certi onorevoli furbissimi, già pauperisti, che facevano partorire le mogli all’ospedale pubblico e dormivano in convento. E Alberto Sordi, dc totale, corrente andreottiana-papalina: “Il difetto democristiano”, diceva Sordi, “fa ridere di più”. Sordi fissava tic e posture e ossessioni in una galleria di personaggi Dc: il medico della mutua, il vigile urbano, il mezzobusto Rai, l’onorevole censore. Secondo Rodolfo Sonego, suo sceneggiatore principe, Sordi “sentiva questi personaggi con precisione, con forza, e cercando di portarne le caratteristiche a un massimo di esasperazione”.
L’appeal e la constituency, sebbene aggiornate ai photoshop, sembrano mai passate di moda: “Spintarella, bustarella, pennichella, pastarella”, le password nell’Italia del boom. “La moratoria la sanatoria la deroga”, e “l’ideologia del posto fisso, le pensioni baby e quelle di invalidità. E il condono, naturalmente: anzi una proliferante varietà di condoni: edilizio, fiscale, previdenziale, istituzionale, tombale perfino”, scrive Ceccarelli. Il profumo dei democristiani era “di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellata di prugne, che intride gli ambienti ecclesiastici” (Pietro Citati). Eau de Dc.
“Vinca le tentazioni. Lo sgomento, il fastidio, l’eccesso di umiltà. Cacci via qualcuno” (Papa Montini a Rumor segretario)
Avevano però anche i loro problemi. Il maggior fastidio per i “democristi” sono i Papi. Che esercitano, almeno fino a Pio XII, potere assoluto. Non si possono nemmeno nominare. “La persona”, così viene chiamato il pontefice a casa De Gasperi, e De Gasperi, prototipo del dc pauperista, viene imbruttito da un feroce Pacelli che gli nega l’agognata udienza privata nell’anniversario di matrimonio (perché De Gasperi era stato tiepido all’idea di far entrare le destre al governo di Roma). I Papi e i loro derivati, vescovi, monsignori, prelati, sono cattivissimi, danno consigli che sono intimazioni. “Vinca le tentazioni. Lo sgomento, il fastidio, l’eccesso di umiltà. Cacci via qualcuno” (Papa Montini a Mariano Rumor appena eletto segretario nel 1964). “Amici sicuri che la aiutino a decidere. Qualche viaggio all’estero dove è più libero. Un buon ufficio stampa per l’immagine senza celebrazioni e senza retorica”, sono le dritte di monsignor Franceschi a De Mita. Fanfani osa ribellarsi. “Se lei verrà ancora una volta a insegnarmi come mi debbo regolare, io verrò in Concilio a insegnare a dire messa”, dice a un messo del Vaticano (tra le carte fanfaniane si ritroverà anche un disegno di legge per tutelare la politica italiana dalle infiltrazioni esterne, con aggravante dell’abuso di “autorità spirituale”: non se ne fece naturalmente nulla, e lui in compenso non riuscì mai ad andare al Quirinale). Aldo Moro ha la sua teoria su come trattare Oltretevere: “Bisogna essere duri, è l’unico modo d’agire che capiscono. Ci vuole un po’ d’Europa orientale, e trovano subito la maniera d’adattarsi”.
Le case dei democristiani sono tinelli. Ecco le foderine bianche che uno stupito Carlo De Benedetti troverà sui divani di casa Andreotti, “una roba dell’Ottocento”. Notabili che alle nove e mezza di mattina intrattengono i clientes nel loro bel pigiama a righe, e babbucce. Non c’è la grandeur socialista, non c’è la ricerca dell’archistar. C’è l’orgoglio del bicamere con uso di cucina. La dispensa è sempre piena, per i poveri e per il terrore della recente povertà. Nello studio di Giulio Andreotti c’è il reparto generi di prima necessità, da erogare ai questuanti; da De Mita a Nusco i caciocavalli vengono stipati “come se si dovesse fronteggiare un lungo assedio”.
“Anemico, scivoloso, evasivo, avido e lumacone”. Volevano un po’ di rispetto. Non sempre l’avevano, anzi quasi mai
I luoghi democristiani sono propaggini di sagrestie. I palazzi, conventi. C’è il solito palazzo Cenci-Bolognetti a piazza del Gesù, con le sue moquette color topo e i termosifoni sgocciolanti; c’è palazzo Sturzo, costruito all’Eur, “una specie di battistero bizantino” secondo Antonio Cederna; c’è la scuola politica della Camilluccia gestita da suore che impongono orari, appunto, monacali. Di suore è anche il ristorante preferito dei dc, l’Eau Vive, un curioso refettorio internazionale dalle parti del Senato, dall’aria vagamente terzomondista, gestito da suorine asiatiche e africane che a un certo punto interrompono il servizio e cantano delle preghiere. Lo scoprì un dc sui generis, Emilio Colombo.
C’è la pruderie e il convento come altrove. Alla Rai, la Rai democristiana, al cavallo rampante di viale Mazzini viene fatto ridurre il “gigantesco” membro, per esigenze di decoro; c’è la stanza 164 di cui nessuno vide mai l’abitante (si favoleggiava che fosse occupata dal genero di un presidente della Repubblica). C’è un dipendente celibe che una sera viene trovato ad amoreggiare con la nubile segretaria, e l’indomani ai due vien fatta trovare una duplice lettera, e opzione: o le dimissioni, o la richiesta di permesso matrimoniale. C’è uno dei primi amministratori delegati, tal Filiberto Guala, che si dimette per prendere i voti e diventare frate trappista, specializzandosi in marmellate di bacche (finire in convento era un’opzione sempre presente, nei tempi della Dc). C’è anche la Zebratura, variazione sul manuale Cencelli (vedi), quel particolare sistema di raccomandazione “per cui all’interno di ciascun ufficio rete o testata i vari dirigenti, direttori o vicedirettori democristiani erano affiancati da altri dirigenti, direttori o vicedirettori ‘in quota’ ad altri partiti. In questo modo alla spartizione delle poltrone corrispondeva un reciproco controllo, presentato all’insegna del pluralismo”.
Non moriremo democristiani. Quello che oggi ha tutto il sapore di un rimpianto era il titolo speranzoso di Luigi Pintor sull’Unità il 28 giugno 1983, quando la vittoria elettorale sul Pci è risicatissima. Aveva ragione, purtroppo. Ma quando muore esattamente la Dc? O almeno quando inizia ad agonizzare? Con il fallimento certificato di Mino Martinazzoli? O vent’anni prima? Nel 1975 Pier Paolo Pasolini si mette in testa di fare un processo alla Democrazia cristiana. Le colpe, simboliche ma neanche troppo: “Distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Ecco l’elenco, l’elenco morale, dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni”. “Mancano solo le guerre puniche”, avrebbe commentato Andreotti.
Un profumo “di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellata di prugne, che intride gli ambienti ecclesiastici” (Pietro Citati)
La Dc non si fa molto spaventare dalle accuse pasoliniane. Ha altro a cui pensare. Ma dunque quando muore? Probabilmente, fa capire Ceccarelli, nel 1978, quando Aldo Moro viene ritrovato tra piazza del Gesù e Botteghe Oscure. Il partito che tutto mediava, che negoziava con tutti, quella volta decide di essere inflessibile. “Fu una perdita e insieme uno schianto, un parricidio collettivo. Lo scudo crociato sopravvisse ancora alcuni anni, non pochi per la verità. Ma poi se ci si ripensa persero anche quelli”. “Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti”, scriveva Aldo Moro rapito, con feroce lucidità. E Guy Debord, su quel caso italiano: “Fu un’opera mitologica a grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi a trasformazioni multiple sono volpi per prendere in trappola la preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la tengono in custodia, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare”.