Si può contenere la monnezza populista
La cultura del No e i tic anti imprese. Dietro il duello sui rifiuti tra Salvini e Di Maio c’è un dramma irrisolto dell’Italia. Perché l’alternativa al populismo passa dalla nascita di un ambientalismo interessato alla difesa non del passato ma del futuro
Can’t believe it. Matteo Salvini ne ha finalmente azzeccata una e nella truce polemica a colpi di ceppe metaforiche con Luigi Di Maio ha asfaltato con i giusti argomenti il leader del Movimento cinque stelle su un tema centrale della retorica e della fuffa grillina: i rifiuti e in particolare i termovalorizzatori. Salvini ha ricordato con malizia al suo compare di governo che nella Campania di Luigi Di Maio la percentuale di raccolta differenziata è di quasi venti punti inferiore rispetto a quella di altre regioni italiane. Ha fatto notare che i contesti locali che hanno saputo trarre maggiori benefici dall’uso dei termovalorizzatori sono quelli della Lombardia. E ha ricordato che laddove ci sono termovalorizzatori si inquina meno, si produce più energia e si genera più ricchezza – in Italia lavorano a pieno ritmo cinquantasei impianti, due terzi al nord, 13 in Lombardia, tre nel Lazio, nessuno in Sicilia; nel resto dell’Europa sono poco meno di 500. Salvini ha dunque ragione quando lascia intendere che i mercati neri, compresi gli stoccaggi irregolari, nascono quando non c’è un’offerta di mercato regolare, che se l’Italia avesse un’offerta maggiore di termovalorizzatori nessuno avrebbe bisogno di fare stoccaggio o di incendiare rifiuti e che in realtà il malaffare si annida laddove ci sono rifiuti che non vengono trattati e che non si sa come smaltire.
Ma i meriti del Truce finiscono qui, perché il governo di cui Salvini è azionista forte ha scelto di soccombere alla monnezza culturale grillina firmando un contratto di governo che esclude ogni incentivo alla realizzazione di nuovi inceneritori e premiando come ministro dell’Ambiente un militare che ha fatto della non-costruzione di termovalorizzatori un punto di forza. E per quanto Salvini possa essere favorevole a esportare nella gestione dei rifiuti il modello scelto da tredici comuni della Lombardia nel resto d’Italia (Brescia e Milano, grazie agli inceneritori, con una mano pagano tariffe agevolate per lo smaltimento e con l’altra incassano dividendi dalla spa nata dalla fusione delle municipalizzate, e a Brescia la trasformazione di immondizia in energia attraverso i termovalorizzatori ha portato la bolletta energetica e la Tari a essere il 35 per cento più basse della media nazionale) la linea dell’esecutivo sul terreno dell’ambiente resta quella che la Lega ha accettato in sede di scrittura di contratto di governo: la sottomissione alla cultura del No.
Il ragionamento che vi vogliamo proporre oggi però non riguarda la traiettoria contraddittoria del truce. Riguarda qualcosa di più importante. Riguarda un tema più ampio che tocca il cuore di una delle contraddizioni e delle grandi anomalie italiane: l’incapacità del nostro paese di sviluppare una sana e robusta cultura in grado di aggredire politicamente i campioni dell’ambientalismo cialtrone. Se ci si pensa bene dietro gran parte dei fenomeni di immobilismo che esistono oggi nel nostro paese, dal no alla Tav al no al Terzo Valico dal no alle grandi opere al no al Tap fino ai no Ilva, si nasconde una nociva cultura legata a doppio filo con i temi dell’ambientalismo all’amatriciana che spesso fanno presa anche all’interno della magistratura più ideologizzata: come ricorda spesso Chicco Testa, capo di Assoambiente, siamo passati da mille procedimenti di argomento ambientale di dieci anni fa ai 13 mila dell’anno scorso, e più del 50 per cento di questi procedimenti si conclude regolarmente con un nulla di fatto.
Nella storia recente del nostro paese, l’assenza di un movimento culturale e politico schierato in modo trasversale a difesa di un ambientalismo non utopistico, non da slogan, in grado cioè di rendere compatibile la difesa dell’ambiente con la difesa del progresso, del benessere, dell’industria ha avuto un effetto devastante sulla vita pubblica e ha portato molti governi a fare compromessi al ribasso con l’intransigenza cieca del partito della decrescita infelice. Essere un verde in Italia oggi significa essere contro il progresso. Significa coltivare un sentimento di diffidenza nei confronti dell’industria. Significa fare l’occhiolino a chi tira bombe carta per bloccare le grandi opere. Significa esultare, come ha fatto anche il Pd in tempi recenti, quando la legislazione crea ulteriori reati legati alla finta difesa dell’ambiente. Le parole di Salvini dunque non ci dicono soltanto che anche in questo governo gli ambientalisti all’amatriciana sono azionisti di maggioranza. Ci dicono qualcosa di più.
Ci dicono che oggi il partito trasversale che combatte contro la decrescita felice, contro la cultura del No, contro il pregiudizio sulle grandi opere è un partito che non potrà mai diventare egemone senza il sostegno di un movimento politico capace di rendere compatibile la difesa dell’ambiente con lo sviluppo dell’Italia, sostituendo con il metodo dei risultati la politica degli slogan. L’alternativa alla spazzatura populista passa anche – come sta succedendo in un certo modo in Germania – dalla nascita di un movimento ambientalista interessato meno alla difesa del passato e più alla difesa del futuro. Non è facile, forse non accadrà mai, ma non è detto che non ci sia qualcuno che ci stia pensando. Bisognerebbe forse chiederlo al sindaco di una importante città della Lombardia che a fine mese organizzerà un piccolo tour per presentare il suo libro, uscito a gennaio, e lo farà accompagnato da un simbolo evocativo messo a disposizione dagli organizzatori del tour: un fiore giallo su sfondo verde affiancato da cinque parole: “Obiettivo futuro: lavoro, ambiente, Europa”. Si parte da Saronno. Il sindaco si chiama Beppe Sala. Sarà solo un caso? Chissà.