Juncker e Conte. Foto LaPresse

Fantainvestimenti. Il bluff di Conte con l'Ue sulla manovra

Valerio Valentini

Contabilità virtuale e agenti sotto copertura. Miliardi da sbloccare che non ci sono, paralisi giustizialista sugli appalti. Così il premier vuole convincere Juncker?  

Roma. Se è vero che tra gli argomenti su cui più farà leva Giuseppe Conte per convincere Jean-Claude Juncker della bontà della sedicente “manovra del popolo c’è la promessa dello sblocco degli investimenti impantanati nei bilanci degli scorsi anni, allora forse tanto vale che la cena in programma sabato sera a Bruxelles tra il premier italiano e il presidente della Commissione europea venga annullata. Perché l’idea di recuperare fondi destinati a qualche ministero o ente locale e mai spesi, e utilizzarli come leva della crescita a breve termine è una suggestione vana. O, più semplicemente, un’invenzione.

 

Troppo preso dall’esigenza di accontentare i propri elettori con prepensionamenti e reddito di cittadinanza, il governo se li era addirittura scordati, o quasi, gli investimenti: e così nella manovra sono stati stanziati a tal fine solo 3,4 miliardi effettivi. “E però ne reperiremo molti di più tra quelli che sono vincolati da anni”, ripetono da settimane il ministro dell’Economia Giovanni Tria e i suoi vice Laura Castelli e Massimo Garavaglia. Stessa promessa ribadita ieri da Conte davanti all’Aula di Montecitorio: “Istituiremo un fondo da 36 miliardi”. Pia illusione. Tecnicamente è infattibile, dal momento che, per prassi e per convenienza, da sempre gli investimenti pubblici vengono gestiti attraverso una contabilità di cassa, e non di competenza. Le poste d’investimento, cioè, si mettono a bilancio solo quando vengono effettivamente spese. “E per il resto, vengono deliberate in legge di Bilancio ma utilizzate in realtà come una sorta di riserva di sicurezza, insomma come una leva per sistemare i conti alla bisogna”, come spiega anche Filippo Taddei. 

    

Ex responsabile economico del Pd renziano, Taddei ha ricordato questi semplici princìpi di finanza pubblica in un recente convegno, organizzato a Bologna dalla Johns Hopkins University, a cui hanno partecipato anche Michele Boldrin e Andrea Roventini, indicato a suo tempo come futuribile ministro dell’Economia dal M5s.

    

Insomma, l’idea vagheggiata dai grilloleghisti per cui in qualche cassetto dimenticato in una stanza remota di un ministero ci sarebbero un miliardo o due pronti per essere spesi in infrastrutture o progetti vari, è una chimera. Quelle poste accantonate sono spesso, di fatto, solo virtuali. Senza contare, peraltro, che difficilmente gli investimenti pubblici, specie quelli destinati agli enti locali (quasi 1,5 miliardi fissati in manovra, chissà quanti ipotizzati nei disegni del governo) non solo producono effetti solo in tempi molto lunghi, ma spesso non possono neppure essere davvero investiti se non prima che passi qualche anno, e si esaurisca quel tortuoso percorso fatto di bandi, assegnazioni, ricorsi vari e, solo alla fine, allocazioni effettive. Insomma, difficilmente andrebbero a contribuire al raggiungimento di quel fantasmatico 1,5 di crescita previsto da Tria (e da Tria soltanto, in Italia e nel mondo).

   

Del resto, però, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e Conte a ruota, sembrano spesso – quando parlano della necessità del dialogo con le istituzioni europee – che confondano spesso il trattare col convincere, se non col circuire. A chi gli chiedeva come possa ipotizzare una contrattazione con Bruxelles che non preveda alcuna concessione da parte del governo, il vicepremier grillino, ieri, con incrollabile rigore logico ha risposto che i burocrati europei “non ci devono chiedere di tradire gli italiani, perché io gli italiani non li tradisco”. E quindi finirà che forse anche l’altro argomento ricorrente, negli annunci dell’esecutivo, verrà riproposto a Juncker, sabato sera: e cioè quello della riforma del codice degli appalti. Doveva arrivare subito, aveva promesso Danilo Toninelli: “Al massimo entro novembre”, secondo il ministro delle Infrastrutture. Ma novembre sta per finire e del nuovo testo non c’è traccia al Mit. “Ci stiamo lavorando: lo metteremo a punto – dicono ora i grillini di governo – dopo l’entrata in vigore del disegno di legge sull’Anticorruzione”. Che, se tutto andrà bene, verrà licenziato a fine anno.

   

Ma il problema non sono neppure i tempi. Il problema è che se, come ha ribadito anche Salvini, la riforma del codice degli appalti servirà a snellire l’ipertrofica burocrazia italiana, allora la strada intrapresa dal governo col disegno di legge anticorruzione va nella direzione opposta. “Con questo codice degli appalti nessun dirigente pubblico firma più nulla”, ripete da settimane il segretario della Lega. Solo che nel frattempo, seppur ostentando insofferenza, i suoi deputati stanno portando avanti in Parlamento un provvedimento voluto dal M5s, il cosiddetto “spazzacorrotti”, che prevede, tra l’altro, anche l’introduzione dell’agente sotto copertura e la non punibilità di chi denuncia il pubblico ufficiale con una delazione. Un combinato disposto che produrrà, come effetto, il terrore di qualsiasi amministratore. Il quale, ovviamente, dovrà temere qualsiasi tipo di proposta di progetto o perfino un incontro con un imprenditore, perché dietro quell’interlocutore potrebbe esserci qualcuno che induce, seppur indirettamente, all’illecito. E se anche non ci fosse un investigatore in incognito a indurlo in tentazione, il sindaco dovrebbe comunque temere che la persona con cui parla poi corra in procura a denunciare, forte della sua non punibilità, un mezzo segno di assenso sospetto, un’intesa magari solo accennata. E d’altronde, quanto faccia paura questa misura agli stessi esponenti della Lega, lo dimostrava il nervosismo con cui i deputati del Carroccio che più da vicino hanno seguito il provvedimento, in commissione Affari costituzionali, parlottavano ieri nel cortile di Montecitorio. “Fossi un sindaco, stasera un pensierino a dimettermi lo farei eccome”, diceva Igor Iezzi al collega Cristian Invernizzi, che annuiva. Dietro di loro, passava anche il capogruppo Riccardo Molinari. Che sentendo la parola “sindaco”, confessava che non vorrebbe proprio “essere nei loro panni”.

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