Il populismo è destinato a fallire, anche in Italia. Parla Ian Bremmer
La strategia di Macron, l’incognita inglese e il pericolo di un’altra Guerra mondiale per colpa delle nuove ideologie
Roma. Secondo il Guardian, un cittadino europeo su quattro vota populista. E non è detto che gli accorati appelli di Emmanuel Macron contro il nazionalismo, “tradimento del patriottismo”, riescano a invertire la rotta. Ne parliamo con il politologo Ian Bremmer, docente alla New York University e presidente di Eurasia Group. “Quando Donald Trump è entrato per la prima volta alla Casa Bianca, lo slogan ‘America first’ era una sua esclusiva assoluta, non aveva emuli nel mondo. Non che fossero venuti meno gli alleati storici degli Usa, anzi Israele e Arabia Saudita non sono mai stati così vicini; ma fino ad allora il sistema di alleanze si era fondato sui tradizionali pilastri di carattere economico, diplomatico, militare, non ideologico come oggi”. Il trumpismo di esportazione riscuote successo. “In Italia il leader della Lega Matteo Salvini è stato il primo delClub G20 ad abbracciare il Trump-style. Il neopresidente brasiliano Jair Bolsonaro è il secondo, in ordine di tempo. Non sappiamo quale sarà il futuro della premier britannica Theresa May ma il Regno unito, dopo la Brexit, potrebbe essere il terzo caso. I leader, che guidano i rispettivi paesi con lo sguardo rivolto verso l’interno, mirano a ridurre sensibilmente la capacità di resilienza dell’architettura istituzionale esistente. E’ in atto un cambiamento strutturale nella governance globale”.
Ian Bremmer (foto Imagoeconomica)
La marcia populista sembra inarrestabile: per restare all’Italia, nei sondaggi la Lega di Salvini ha quasi raddoppiato il consenso rispetto al voto del 4 marzo. “Non mi stupisce. La tendenza populista è destinata ad accentuarsi nel breve periodo ma, in un orizzonte più lungo, lo scenario potrebbe mutare, soprattutto in caso di rallentamento della crescita economica globale”. Bremmer è di ritorno da un’intensa settimana francese. In occasione del Centenario dell’armistizio della Grande Guerra, Macron ha accolto all’Arco di Trionfo oltre 72 capi di stato e di governo. “L’evento ha mostrato, da un lato, la vicinanza umana e politica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, che potrebbe dimettersi l’anno prossimo dopo le elezioni europee; dall’altro è emersa la distanza siderale tra l’inquilino dell’Eliseo e l’omologo statunitense il quale, nell’incontro bilaterale a margine, si è rifiutato di stringergli la mano. Mentre Macron pronunciava un discorso solenne contro il nazionalismo, il volto di Trump tradiva la sua irritazione, sfogata all’indomani su Twitter”. In Francia, insieme alle proteste dei gilet gialli contro il rincaro del carburante, il leader dell’Eliseo affronta il calo di popolarità, ferma al 26 per cento. Una percentuale inferiore a quella di Nicolas Sarkozy a un anno e mezzo dall’inizio del mandato. “Macron è riconosciuto come il paladino di una maggiore integrazione europea e della globalizzazione. Il momentum politico non rema a suo favore né a livello domestico né internazionale. Gli scandali interni, a partire dall’affaire Benalla, e la sequela di dimissioni di figure di alto profilo che hanno abbandonato la compagine governativa, non hanno aiutato. C’è poi lui: intelligenza solida ma anche capace di passi falsi. Ha effettuato un rimpasto di governo, tra molteplici incertezze e non poche gaffe. Tuttavia, più di ogni cosa, ha inciso il fatto che il suo messaggio europeista e globalista non trova il favore dei francesi: rispecchia il pensiero di molti all’estero, d’accordo, ma Macron è stato eletto per rappresentare il popolo di Francia”. Secondo i suoi sostenitori, l’impopolarità sarebbe il prezzo di riforme necessarie per rafforzare la crescita nel lungo periodo. “E’ vero ma l’andamento economico globale rischia di ostacolare i suoi progetti. Chi lo conosce bene gli rimprovera una scarsa propensione all’ascolto: il presidente è circondato da un inner circle di ammiratori che si guardano bene dal contestarlo. Ha presente Obama? Ancora peggio”. Per le celebrazioni del Centenario, ha fatto discutere la volontà del presidente di onorare un “grande soldato” della Prima guerra mondiale, il maresciallo antisemita Philippe Pétain, che a distanza di qualche anno avrebbe guidato il governo di Vichy collaborando con la Germania nazista. “La commemorazione di Pétain come eroe nazionale è parsa inopportuna persino per i canoni del patriottismo francese. Nessun consigliere ha osato muovere un’obiezione al presidente che, alla fine, è corso ai ripari limitando la cerimonia al ricordo di cinque marescialli, Pétain escluso”. Nel suo discorso antinazionalista, Macron ha evocato il ritorno di un clima da anni Trenta. “Egli ritiene che il mondo abbia dimenticato la lezione del passato quando il nazionalismo fuori controllo, alimentato da risentimenti interni, condusse a una guerra mondiale atroce. I leader attuali devono rendersi conto che la storia può ripetersi. Inoltre Macron è consapevole di non avere competitor in giro per l’Europa: e allora la leadership antipopulista a chi spetta se non a lui?”.
Una politica che non offre soluzioni
Lei sostiene che nel lungo periodo la luna di miele populista è destinata a cessare. “Per qualche tempo, la coalizione antisovranista non ha chance di vittoria. Il sentimento populista tende a crescere quando l’economia registra, tutto sommato, una buona performance. Ma in un orizzonte temporale più dilatato il successo dei populisti dipende dalla loro capacità di ridefinire il contratto sociale e di far funzionare i governi per soddisfare bisogni ed esigenze del cittadino medio europeo. Le persone si aspettano un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Ad oggi si direbbe che, laddove i populisti governano, le politiche messe in campo non si dimostrano all’altezza dei problemi da affrontare. Il motivo è presto detto: la fiera degli slogan marcia in direzione opposta alle soluzioni di policymaking che comportano sacrifici nel breve periodo e assicurano risultati soltanto nel lungo. Ci vuole tempo ma la realtà, prima o poi, si spalanca agli occhi”.
Il caso Italia: la manovra bocciata dalla Commissione europea, i conti in disordine, l’economia che rallenta e lo “splendido isolamento” in Europa. “Chi inneggia all’emarginazione internazionale è un irresponsabile mosso da ragioni puramente elettoralistiche”. Se il sovranismo è difesa del particulare, come sta in piedi un fronte sovranista che include paesi portatori di interessi divergenti? “Il nazionalismo non è il cemento di alleanze stabili. Per qualche tempo le parti, unite nella lotta contro lo status quo globale, possono riuscire nell’intento. Tra le persone pulsa un sentimento reazionario in grado di convincere, e i singoli paesi possono allinearsi per motivi di scambio su questioni specifiche. Non si tratta tuttavia di alleanze di lungo periodo: sul piano tattico, i leader si supportano l’un l’altro secondo la logica per cui chi è nemico del mio nemico è mio amico, ma la loro ideologia e le loro istituzioni restano profondamente ancorate alla dimensione nazionale. E poi, man mano che il contesto generale muta rispetto alla condizione iniziale che ha dato origine a quella coalizione, l’interesse nazionale torna a essere preminente. Basta pensare al rifiuto dei paesi di Visegrad contrari ai ricollocamenti dei migranti, oppure allo scontro d’identità tra nazionalisti italiani e austriaci sulla doppia cittadinanza per i sudtirolesi”.
Intanto l’ex ideologo trumpista Steve Bannon prosegue il tour per reclutare le guarnigioni di The Movement, l’internazionale populista europea. In versione anti-Soros. “Resto scettico sull’attività di Bannon, dubito che porti a qualcosa. E’ utile a lui che è diventato intoccabile per molte organizzazioni mainstream negli Usa, per non parlare dei contratti di consulenza che accumula. C’è gente disposta a pagare un mucchio di soldi per i suoi consigli. Non vedo una personalità autorevole e seria in grado di mettere insieme risorse e ricette politiche sotto l’ombrello di Bannon. Karl Marx sognava l’internazionale del proletariato, più tardi Lenin si accorse che gli operai tedeschi e quelli russi non erano interessati al progetto. La sfida oggi non è che i nazionalisti vincano ma che i liberaldemocratici possano uscire sconfitti. Se ciò accadesse, i dittatori veri guadagnerebbero la scena”.