I “buoni veneti” delusi dalla Lega
“Ti senti più o meno rappresentato da un governo che grazie alla Lega dovrebbe essere più filoveneto dei precedenti?”. Rispondono scrittori, pittori e mecenati del Veneto. Bocciato Salvini, salvato Fontana
"Eamus ad bonos venetos”, andiamo dai buoni veneti, secondo un’antica formula che per me è sempre valida e pure per Paolo Malaguti che nel suo nuovo libro dedicato alla Pedemontana Veneta ricorda l’episodio del tanko in piazza San Marco non come un atto di guerriglia ma come “un momento di teatro”. Goldoni anziché Guevara. Non potendo chiedere direttamente a san Marco (tantomeno al suo leone chiuso in un silenzio di bronzo) un pensiero sul tasso di marcianità dell’attuale governo, sono andato dai buoni veneti.
Innanzitutto sono andato dagli scrittori perché l’osservazione del territorio fa parte del loro mestiere. Non conoscerei il Veneto del passato senza Comisso, Piovene, Zanzotto, anche un po’ Cibotto e Parise, quindi chiedo agli scrittori odierni lumi sul Veneto presente. “Secondo me il filovenetismo della Lega è del tutto teorico, non vedo alcun segno di reale attenzione e nemmeno di semplice ascolto per il mondo del lavoro e delle categorie. Al contrario, mi sembra ci sia una crescente incomprensione”. Lo sapevo che Romolo Bugaro, nato e residente a Padova e dunque il più urbano dei narratori veneti viventi, perfetto ritrattista della borghesia patavina in “Bea vita!” (Laterza), un grande entusiasmo verso la Lega strapaesana non me l’avrebbe comunicato. Padova non è la città meno leghista del Veneto (la vera ridotta piddina è Venezia centro) ma credo sia la città meno veneta, forse per le dimensioni quasi metropolitane, forse per l’università che è sentina di cosmopolitismo. Più che sul voto misuro il venetismo sul dialetto, che fra Piazza delle Erbe, Ghetto e Prato della Valle sento risuonare davvero poco.
Vive nella città del Santo anche Giulio Mozzi, sebbene nativo di Camisano Vicentino dove alle politiche la Lega ha preso il 39 per cento. Forse per reazione, alla mia Domanda Standard (“Come veneto ti senti più o meno rappresentato da un governo che grazie alla Lega dovrebbe essere più filoveneto dei precedenti?”) risponde con piglio risorgimentale, non proprio da bonos venetos: “Il governo deve essere italiano! E come italiano vorrei che questo governo avesse più senso dello stato”.
Stefano Lorenzetto è ancora più conciso, ma in direzione opposta: “Sicuramente non mi sentivo rappresentato dal governo Renzi”. Ho bisogno di qualcuno che mi dia più soddisfazione e lo trovo in Paolo Malaguti che è proprio un venetologo, avendo dedicato all’amata regione molti titoli e innanzitutto “Sillabario veneto” (Santi Quaranta): “Come veneto non mi sento rappresentato da questa Lega per due ragioni: 1) è venuta meno la spinta autonomistica della prima fase, oggi in Veneto le istanze autonomiste sono lasciate a un sottobosco di movimenti più folkloristici che politici, intenti a fare sfilate in divisa serenissima; 2) continuo a registrare, stavolta in continuità con la prima Lega, un lombardocentrismo dei vertici, una continuità storica Bossi-Maroni-Salvini che mette in ombra quella che a mio avviso è la via veneta al leghismo”. Credo di aver capito, perché li ho letti davvero i libri di questo professore di latino più nostalgico della sua età (è appena quarantenne). Compreso l’ultimo Marsilio in cui racconta di aver compiuto un sopralluogo ciclistico-letterario nella Malo di Luigi Meneghello completamente digiuno, essendo Venerdì Santo. Ma è meglio approfondire. Cosa intendi per via veneta? “Spesso il leghismo veneto, e penso a Tosi o allo stesso Zaia, è più dialogante, nobilmente democristiano, potrei dire. A me veneto pare una perdita pesante questa assenza del leghismo veneto a livello nazionale, specie se messa a confronto con la retorica della formula secca, del non-ragionamento salviniano”.
Esaurisco i prosatori con Ferdinando Camon che della letteratura veneta è il decano, essendo nato nel 1935. Mi piacque molto la definizione che applicò alla Treviso del sindaco Gentilini, “una nuova Sparta nel caos multietnico del nord-est”. Non ricordo se ci fu la parallela evocazione di una nuova Atene, in tal caso il ruolo sarebbe ovviamente spettato a Padova sebbene i dintorni della sua stazione più che alla polis di Socrate e Platone facciano pensare a una nuova Lagos. Camon alla Domanda Standard risponde: “Sì, mi sento più rappresentato. Quella che oggi è Lega, ieri, quando nasceva, era Liga”. Come veneto cosa chiederesti al governo? “Conscia o inconscia, la richiesta dei veneti è un diverso rapporto dare-avere tra regioni e stato. E’ una richiesta giusta, e non egoista. Chi dà di più deve ricevere di più per poter dare di più”. E come scrittore veneto? “Non c’è scuola siciliana che non legga scrittori siciliani, non c’è scuola veneta che legga scrittori veneti…”. Chiaro, anch’io sono per rendere “Veneto felice” di Comisso lettura obbligatoria dal Garda al Tagliamento.
Il vicentino Roberto Dal Bosco è colui che in tempi non sospetti, 2014, pubblicò per la casa editrice veronese Fede & Cultura un attacco al grillismo sintetizzato come ecofascismo anticristiano: “Incubo a 5 Stelle. Grillo, Casaleggio e la Cultura della Morte”. La sua risposta alla solita domanda: “In teoria sì. Perché ora abbiamo come sottosegretario una persona retta e fattiva come Bitonci. Perché hanno fatto ministro Fontana. Perché Salvini in Veneto c’è spessissimo e dal Veneto è riamato. Ma solo in teoria, perché gli effetti ancora non sono visibili”. Quali effetti vorresti vedere? “L’uscita dall’euro, la moneta che ha disseccato la linfa vitale della mia terra, l’export, più il rimpatrio effettivo degli sbarcati che ancora fannulleggiano benvestiti nei quartieri residenziali di pensionati semiterrorizzati e, senza bisogno di biglietto, nei treni di noi pendolari, più l’attuazione di quell’autonomia per cui i veneti hanno votato in massa, un’autonomia sopra ogni cosa fiscale”. Vastissimo programma. Eppure Novello Papafava de’ Carraresi, saggista liberista (Liberilibri), va oltre. Non si sente rappresentato “da nessuno dei governi successivi all’Unità d’Italia”, altro che governo Conte.
Il discendente e omonimo del Novello Papafava che presiedette la Rai del boom economico, antifascista liberale amico di Giuseppe Prezzolini, sogna che il Veneto diventi simile proprio a quella Svizzera dove Prezzolini si rifugiò nell’emblematico 1968. Un altro giovane aristocratico, Tommaso Pandolfo-Fanchin, dandy cattolico a cui dobbiamo “Mai senza cravatta. Breviario di eleganza maschile” (Aliberti), nutre grande fiducia nel ministro veronese Lorenzo Fontana e lo sostiene con la preghiera. Forse in latino, considerato il suo conservatorismo liturgico.
Dai libri passerei ai quadri e qui potrei inserire il terzo doppio cognome, Jacopo Bulgarini d’Elci, non come ex vicesindaco di Vicenza bensì come organizzatore di grandi mostre: “Per quanto possa sembrare un paradosso credo che oggi il Veneto abbia più rappresentanza ma meno rappresentazione, per la trasformazione della Lega da partito macroregionale federalista, antistatale e di ispirazione almeno in parte libertaria a partito nazionale, statalista e sovranista. Il Veneto, oggi, nell’equivoco di contare di più, pesa certamente di meno”. Bella analisi che non può essere condivisa da alcuni miei eccellenti pittori, programmaticamente avulsi. Per l’appartatissima padovana Greta Bisandola “un pittore è uno straniero nel mondo, difficile valorizzare sentimenti di appartenenza a qualcosa”. Anche il vicentino Manuel Pablo Pace evita la politica con cura: “Per potermi immergere nelle atmosfere dei miei quadri: ciò che mi fa essere un pittore ottimista è anche questo distacco dalla realtà”. In effetti le sue tele ritraggono veneti quali Paolo Bisol, Tiziano Busin, Antonio Guarda Nardini, Martino Zanetti, impegnatissimi nelle battaglie imprenditoriali e però immortalati sullo sfondo di boschetti zanzottiani, arcadici, incantati. Pace, serafico fin dal cognome, rinnova il Veneto Felice di comissiana memoria e ben venga l’astinenza mediatica se per ottenere tale risultato bisogna ignorare le pluriquotidiane dichiarazioni di Salvini e Di Maio. Invece Raffaele Minotto risponde alla Domanda Standard da riformista informato: “Io mi auguro di non avere un governo filoveneto: valorizzare i talenti locali, questo sì, sono d’accordo, ma in un confronto dialettico con le altre regioni e soprattutto con le altre culture. Che senso ha rimanere a guardarsi le punte delle scarpe mentre il mondo ti scorre davanti?”.
Adesso sarebbe il momento dei collezionisti che però mi hanno risposto cose capaci di mettere in pericolo il loro collezionismo, meglio lasciarli anonimi. Qui parla un grande commercialista: “Dopo Rumor il Veneto non ha mai prodotto una rappresentanza politica nazionale degna, posto che ci sia qualcosa di degno nella politica. Salvini ha venduto l’anima al potere come prova l’ultima manovra finanziaria che si prevede più devastante di quella di Monti. La spinta fantastica e per certi versi epica e piena di poesia del primo leghismo si è tradotta nell’incapacità di governare a livello nazionale. Quando manca la cultura non si va da nessuna parte”.
Un imprenditore dell’abbigliamento si considera invece più rappresentato: “Tre ministri non sono pochi, e soprattutto si sente la continuità con Zaia”. Ma se a Roma decidono il reddito di cittadinanza, che per l’industria veneta e non solo veneta significherà altre tasse e ulteriori difficoltà nel reperire personale, cosa può farci Zaia? “Ho la netta sensazione che il reddito di cittadinanza resterà solo una promessa elettorale”. Speriamo che i veneti oltre che buoni non siano illusi.
Concludo il rapido viaggio fra i veneti mecenati con Roberto Brazzale che mi ha autorizzato e contro-autorizzato a citarlo: “La Lega ha abbandonato l’obiettivo federalista, ergo non mi sento rappresentato da Salvini e dal suo partito. Semmai da singoli parlamentari o singoli ministri veneti come Stefani e Fontana”. Al governo cosa chiederesti in quanto veneto? “Che applicasse la Costituzione e desse corso agli accordi di autonomia differenziata chiesta da 2,7 milioni di veneti. Siccome non sarà così, chiederei di non picchiare duro, alla spagnola, quando organizzeremo il referendum per l’indipendenza”. Il leone di piazza San Marco è sempre chiuso nel suo silenzio di bronzo, anche oggi che, assieme alla tradizionale acqua alta, si sta alzando l’altra marea delle tessere elettroniche (sei milioni!) del famoso reddito pentastellato. Se non si mette a ruggire ora, quando?