Dalla Francia all'Italia, che pena il rinculo del potere
La ritirata di Macron davanti alla piazza francese e quella farsesca dei gialloverdi. Democratico liberale o populista, il potere si mostra debole
Il potere che rincula è uno spettacolo avvilente ma sempre più sbigliettato a tutti i botteghini. Francia, Italia. Cinquanta anni fa De Gaulle dopo un mese di barricate rive gauche e fervorosa rauca seducente rivolta dei giovani intellos, per non dire della grève convocata con successo dalla Cgt e compagnia, con le bandiere rosse su tutte le fabbriche occupate, scomparve per quasi 48 ore, creò il dramma del dramma con la sparizione del corpo del re. Ve lo do io l’incubo, disse ai barricadieri in una storica allocuzione via radio e poi tv: tornò a sorpresa facendo sapere che era stato in elicottero dal compagno d’armi René Massu, comandante delle truppe di stanza in Germania a Baden-Baden, e dall’alto della Forza evocata dichiarava finita la ricreazione (la chienlit, c’est fini), scioglieva l’assemblea, metteva un milione di francesi della destra conservatrice dietro alle bandiere con la Croix de Lorraine, all’Arco di Trionfo naturalmente, e in avanti il livido volto sofferente di Malraux, e distrusse le speranze del movimento che gridava “élections, piège à cons” contro i ludi cartacei che diedero una maggioranza spavalda al Generale. Era la felice epoca definita dal genio letterario di Mitterrand il “colpo di stato permanente”, quando le Costituzioni erano affare serio e la legge alla fine aveva i suoi tutori inflessibili. Poi un anno dopo De Gaulle perse, ma l’uscita di scena fu nel complesso grandiosa.
Ora il presidente Macron si vede costretto a tacere della ribellione Rive droite, manda avanti il primo ministro per dire a quei guerrieri poujadisti del ceto medio declassato che le tasse si rinviano, come volevano loro bloccando la nazione al suo crocicchio, e per l’occasione si congelano anche le bollette, e naturalmente inizia la chienlit della consultazione popolare sul regime fiscale, per qualche mesetto. Ma pare non basti nemmeno a salvaguardare Parigi messa a ferro e fuoco e la gendarmerie repubblicana che mostra segni di stanchezza. E questo lo fa un presidente eletto che aveva promesso di riformare e trasformare la Francia nel nome di una visione razionale dello sviluppo capitalistico, d’impronta riformista e liberale, e ci stava riuscendo abolendo privilegi corporativi e pigrizie sociali diffuse quando gli hanno scagliato contro l’epiteto intollerabile per il paese dell’égalité di “presidente dei ricchi”, quando i presidenti dei poveri si chiamano Maduro e Bolsonaro.
Il rinculo italiano è un teatro parallelo, naturalmente farsesco. Qui il nuovo potere era nato per spendere e spandere a casaccio, accontentare corporazioni, fasce d’età pensionabile, veri e falsi poveri cui fu promesso reddito senza lavoro dall’alto del terzo debito pubblico del mondo, per non parlare delle guerre tuittarole ai nigeriani e agli affogati, complemento saporito della pietanza leghista con tanto di rosario e presepe devotissimo e inaudite lettere di Babbo Natale e instagrammi con spaghetti cacio e pepe à la mode del Truce, magari mettendo sull’avviso i banditi che i gendarmi stavano per arrestarli. Eppure era sembrato per un momento cosa quasi seria, con quel 2,4 per cento di deficit, il balcone affollato di condoni e condonati e condonisti e ministri della Fatica compensata in nero, la forma italiana della barricata di strada, il nostro romanzo alla Victor Hugo, il nostro buffo romantico miserabilismo scagliato contro l’indifferenza dell’eurocrazia europea, merde alors, ma sempre nella nostalgia inconfessata per l’intoccabile euro, ora sinonimo dell’oro di Napoli, l’euro di Napoli. Niente.
Arriva il rinculo anche qui, con la giostra dei professori e avvocati tecnici, sorretti dalla fede inconcussa in Padre Pio, santo davvero potente se questi sono arrivati dove sono arrivati. Ora promettono solo il 2, di deficit, e trattano per farsi levare la multa, mentre i padroni da li beli braghi bianchi protestano contro il governo insediato dai loro giornali editori e anchormen in nome delle grandi opere, e il nord operoso si preoccupa dello spread delle banche delle esportazioni, e non si capisce perché i genovesi, ché loro sì sarebbero una razza seria, non tirano fuori dei ganci da portuali come una volta per mettere a ferro a fuoco una città condannata a settimane, mesi, magari anni o secoli di pena per le parole alate di un ministro infrastorturale.
Bisogna ammettere che, populista e democratico liberale, il potere si mostra debole. Anche la Brexit è lì lì per farsela sotto, con l’economia britannica a pezzi. Il potere ha bisogno di credere in sé stesso, quello degli anni di gloria aveva alle spalle la guerra mondiale, il Novecento, i partiti, la selezione della classe dirigente, la scuola della forza e della virtù, addirittura le ideologie, questo ha alle spalle un’esperienza fragile della democrazia, sia nella sua versione pop che nella sua versione lib, e una vasta e cancrenosa ignoranza plebea che grida al cielo la propria santità sociale. Il potere lib-pop è il potere di annunciare apocalissi o trasfigurazioni e ritrattarle o ritrasfigurarle nel giro di mesi, basta un baubau di Moscovici o un ciottolo tirato a un flic, perché alle spalle non c’è più né il bum-bum né il boom, ma un grande vuoto e un isolamento poco splendido. Che pena.
Equilibri istituzionali