L'Italia sovranista sul lettino della psicoanalisi del Censis
Dalla società del “rancore” a quella “rasoterra” che solo l’élite può sollevare
Roma. La società italiana un anno fa era rancorosa e covava quella rabbia che l’ha resa cattiva. Il Censis dà come al solito chiavi di lettura che fanno sempre titolo: quando si parla di comunicazione e si esaltano i maghetti (o gli stregoni) dei social media nel condensare in poche battute un’idea e un’immagine, si fa torto a Giuseppe De Rita e al suo team. Ma questa volta più che le sintesi icastiche, conta leggere e meditare le analisi più strutturate offerte dall’ultimo rapporto, presentato venerdì al Cnel dal segretario Giorgio De Rita e dal direttore Massimiliano Valerii. Il filo conduttore è una drastica e impietosa critica al sovranismo, a quello psichico come lo chiama e a quello politico, al leaderismo, all’appiattimento sociale, all’uno vale uno, alla disintermediazione che dalla rete è stata trasportata nella società, nella economia e nella politica, provocando sconquassi.
Ecco tre passi eclatanti: “Il sistema sociale, attraversato da tensione, paura, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l’empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo, con un’interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. “I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito consenso elettorale… Al contrario, la politica vince se resiste alla tentazione di appiattimento, se afferrando la richiesta d’individualizzazione evita di concentrarsi su una sola linea del fronte dei processi collettivi, se interpreta fino in fondo la domanda di distinzione, se intercetta senza adattarvisi i gusti dei committenti”. “In tanti abbiamo detto e ripetuto che siamo di fronte a una politica dell’annuncio. Non va però dimenticato che la funzione politica, la responsabilità della classe dirigente, il ruolo dell’establishment stanno proprio nel proporre una prospettiva nel futuro. L’annuncio senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto politico, da profetico si fa epigonale: una sbiadita e superficiale imitazione di un illustre precedente”. Chi sia il precedente non è difficile da capire, è il Somaro principe, il Primo Racimolatore, il Paflagone-smargiasso, Priapo moscio, il Gran Correggione del Nulla, il Culone in Cavallo, il Batrace Stivaluto, il Priapo Tumefatto, il Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze, insomma l’infinità di nomi che gli ha appiccicato Carlo Emilio Gadda.
Sono tre paragrafi chiave delle considerazioni generali che Giuseppe De Rita ha lasciato quest’anno al figlio Giorgio, ma il lavoro di ricerca sul campo non fa che confermare le preoccupazioni: “Una società senza più miti né eroi”, un consumismo “egolatrico” (impressionante la spesa per telefonini più che triplicata nel decennio della lunga recessione, arrivando a 23,7 miliardi di euro), la negligenza verso la ricerca e l’innovazione (si spende poco perché non è mai una priorità), il bisogno radicale di sicurezza che minaccia la società aperta, il rifiuto dell’immigrazione, l’aumento delle diseguaglianze e delle divisioni più in generale.
Anche sull’Europa il Censis sente di dover prendere una posizione netta: “L’Italia arretrando verso continue e reciproche accuse al modello europeo perde il senso del proprio posto… Dobbiamo riscoprire e far riscoprire che il progetto di una sovranazione europea non è progetto di sottrazione, ma di messa a fattor comune”.
Dunque il Censis, che ama guardare il mondo di sotto, viaggiando “rasoterra”, fiutando i movimenti sotterranei, scrutando i fili d’erba che diventano cespugli, questa volta non si può sottrarre dal parlare di politica senza mediazioni, perché “ignorare il cambiamento sociale è stato l’errore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio”, ma adesso “se ci si appiattisce sul presente si resta prigionieri di impulsi disarticolati e giocati solo sul presente”. E così, rilancia “il bisogno di un dibattito serio sull’orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i traguardi. Una volta si sarebbe detto che ritorna il classico tema dell’egemonia e del ruolo delle élite”. Il Censis è sempre stato fondamentalmente ottimista sulla capacità del “modello italiano” di trasformarsi restando se stesso. Anche questa volta non cede a visioni apocalittiche e sottolinea i segnali incoraggianti: in economia la forza davvero impressionante delle esportazioni, segno di un tessuto manifatturiero che ha saputo rinnovarsi; nella psicologia collettiva una “decelerazione del rancore come umore collettivo”. Ma se “gli italiani sono ormai pronti perfino a un salto nel buio”, se c’è “una ricerca programmatica del trauma nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale”, se “siamo in effetti di fronte a una qualche forma di discontinuità”, l’adeguamento sia pur intelligente e “programmatico” ai mutamenti dal basso non è più sufficiente.