La scissione più importante è quella tra Renzi e il partito dei sindaci
"La mia città è il mio partito". Gli esponenti locali delusi dall'ex premier dicono no a un nuovo soggetto politico. Parlano Palazzi, Gori e Falcomatà
Roma. I sindaci sono sempre stati l’architrave del renzismo, fin da quando Matteo Renzi nel 2010 aveva deciso di lanciare l’assalto al cielo nell’unico modo possibile per chi vuole arrivare a Roma non essendone figlio: attraverso il mitologico territorio. A distanza di anni dalla prima Leopolda, i rapporti fra i sindaci e quello che è stato uno di loro non sono più così buoni. Anzi. Quindi, anche se non si sa che cosa farà Renzi – un partito tutto suo o no – intanto è certo che fra i cinquecento primi cittadini che avevano firmato la candidatura del diversamente renziano Marco Minniti a segretario del Pd circola non poca amarezza. Anche perché l’ambiguità di Renzi resta, nonostante le smentite. E ad alimentarla ci sono alcuni dettagli e indizi.
Durante l’incontro finale fra Minniti, Luca Lotti e Lorenzo Guerini nel quale l’ex ministro dell’Interno aveva chiesto come precondizione per accettare la candidatura la firma dei parlamentari su un documento con l’impegno a non lasciare il Pd, sono state date due risposte: Guerini lo avrebbe firmato, Lotti invece ha scosso la testa e detto di no. Dunque si capisce bene che per un sindaco del Pd non debba essere un gran momento. Specie quelli a favore di Minniti segretario. Diversi di loro, peraltro, nel 2019 devono affrontare una tornata elettorale in un contesto difficile, quindi ci manca solo che un pezzo del Pd si stacchi per diventare non si sa bene cosa.
Vedi Dario Nardella, che ha subito dato l’altolà al suo predecessore: “Firenze è il mio partito”. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, è allineato: “Sono nardelliano: ‘Bergamo è il mio partito’”, dice al Foglio. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che con Renzi ha da tempo un rapporto difficile ma che all’inizio veniva indicato come un modello, è convinto che “prima o poi” l’ex sindaco di Firenze lascerà il Pd, “perché questa situazione tirata così a lungo non fa bene a nessuno”.
Sala dice che non sarebbe una buona cosa per il Pd se Renzi lasciasse, “ma continuare in questo rapporto logorato è difficile. Posso capire Renzi dal punto di vista umano perché quanto ti guardi intorno e non vedi tanti amici ti viene voglia di cambiamento”. L’immagine del Renzi senza tanti amici descritta da Sala è particolarmente potente. Ma se Renzi si è sentito abbandonato in questi anni, va detto anche che pure i sindaci si sono sentiti abbandonati da Renzi, la cui traiettoria politica appare di difficile comprensione. Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, dice di lavorare per togliere terreno alla scissione.
Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio Calabria, firmatario come altri dell’appello a favore di Minniti, assicura che resterà nel Pd. Spiega Falcomatà al Foglio: “Tutti, da subito, ci siamo trovati d’accordo nel dire che restiamo nel Pd e che non pensiamo neanche minimamente a eventuali scissioni. Siamo nel pieno di un dibattito congressuale, non si possono ascoltare certe voci su pezzi di partito pronti ad andarsene per formare un soggetto politico nuovo”. Quel che sta succedendo a livello nazionale, dice Falcomatà, l’ha visto in piccolo a livello locale nei suoi quattro anni da sindaco. Un partito ripiegato su se stesso, assente, che litiga. La cura di Renzi segretario del Pd insomma non pare essere stata molto salutare. “Ma ormai ho elaborato il lutto”, dice ironicamente Falcomatà, che nel 2014 ha vinto primarie molto partecipate (votarono 17 mila persone, il Comune di Reggio ha 180 mila abitanti e mediamente votano sulle centomila). “Il Pd è stato debole e inesistente sui territori”.
Per questo, spiega, lui ha sempre preferito mantenere un profilo “civico, di strada. Anche adesso. La debolezza del Pd ha significato non avere un’antenna sui territori, nei quartieri, non c’era neanche uno scudo per difendere il sindaco dagli attacchi strumentali”. Insomma, Falcomatà non è stupito dalla piega che ha preso la discussione nel Pd: “Quel che sta accadendo a livello nazionale l’ho vissuto qui. Il Pd è un partito che si guarda la pancia, impegnato in beghe interne, non siamo abbastanza forti per essere un’alternativa”.
Basta vedere, dice, quello che è successo alle ultime amministrative, “a Catania il Pd non ha neanche presentato il simbolo, eppure Enzo Bianco è un esponente di punta”. Falcomatà, comunque, non ci pensa “ad abbandonare la barca in un momento difficile, a maggior ragione chi è sindaco ha un alto senso di responsabilità”. A questo punto, secondo lui, “non ci saranno spazi per presentare un’altra candidatura, visto che il 12 dicembre scadono i termini. A mio avviso, uno delle due candidature più forti in campo, in un’ottica di unità del Pd, dovrebbe fare un passo indietro per farne fare due in avanti a tutti”. In questo modo, dice il sindaco reggino, ci sarebbe un segretario legittimato dai gazebo.
Mattia Palazzi, sindaco di Mantova, concorda con il collega Falcomatà: meglio restare nel Pd. “Le scissioni – dice al Foglio – non hanno mai portato bene, auspico non ve ne siano. Il Pd va cambiato radicalmente, sia per come è organizzato, sia nella analisi di cosa significa essere un partito progressista oggi. Non servono scissioni e non serve tornare all’idea di un partito socialdemocratico anni ‘90. Molte proposte le si possono già trovare dove governa il Pd in molte città, da Milano a molti comuni medio e piccoli.
"Proposte di un riformismo radicale che rappresenta ceti popolari e ceto medio. Ciò che il Pd deve fare è ritessere un patto per la crescita e la giustizia sociale, qui e in Europa. Mi permetto infine di dire che al Nord c’è spazio per riprendere un protagonismo forte, questo governo blocca investimenti sta facendo del male soprattutto al Nord”. Se Renzi dovesse andarsene quanti amici avrebbe?