Poliziotti in Italia, teppisti in Francia
Salvini, Di Maio e Conte: il malinteso dello stato che si fa anti-stato
In Italia sono lo stato e dunque stanno con la polizia, in Francia stanno invece con i violenti che alla polizia tirano le molotov, ma in entrambi i casi partecipano attivamente al lento sfaldarsi dell’ordine civile. E allora Luigi Di Maio spiega che gli spasmi da curva sud dei gilet gialli altro non sono che “la manovra del cambiamento”, cioè la nostra legge di Bilancio, niente meno: guerriglieri della restaurazione etica contro la pervasiva logica della finanza vaporosa e della politica truffaldina. Il presidente del Consiglio, il prof. avv. Giuseppe Conte, si rivolge invece alla commissione europea descrivendosi minacciosamente come l’ultimo argine alle violenze di piazza che ieri hanno incendiato Parigi e domani potrebbero incendiare Roma, dunque Juncker avvisato mezzo salvato: “Approvateci la manovra, altrimenti…”. E infine il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, celebra ambiguamente il tumulto parigino e i saccheggi nei negozi pubblicando un collage di fotografie e di dichiarazioni dei suoi avversari politici italiani: “Quanti danni hanno fatto al nostro splendido paese il Pd e gli amici di Macron. Fortunatamente gli italiani li hanno, democraticamente, cacciati”. Democraticamente. Per fortuna. Altrimenti… Seguono immagini da guerra civile nelle strade francesi: fiamme, barricate e nuvole di fumo nero.
Ci stiamo abituando a tutto. E non facciamo in tempo ad abituarci a un peggio che subito arriva un pessimo. La Francia è infatti il paese in cui quelle stesse parole violente che in Italia vengono maneggiate con spensierata frivolezza diventano violenza vera. Una piccola rivolta che vuole delegittimare per indegnità tutte le autorità formali. Mentre la parola “popolo” diventa il marchingegno retorico che permette di giustificare, senza peraltro esibire alcuna reale giustificazione, qualsiasi politica. Ecco allora l’apparente schizofrenia del nostro ministro dell’Interno. Salvini, sabato, è infatti salito sul palco a Roma con una felpa della polizia, dicendo: “Quando c’è la Lega in piazza le forze dell’ordine sono tranquille, sono disarmate, sono sorridenti e sono con noi; non per controllarci ma per sostenerci”. Insomma Salvini ha manifestato l’idea limacciosa che polizia, carabinieri e guardia di finanza non siano impegnati a proteggere il libero svolgimento di una manifestazione, ma siano impegnati a rendere omaggio, che non siano più dunque mezzo militare per proteggere la libertà anche di essere beceri e leghisti, ma parte in causa, tifo, praticamente militanza. Ragione per la quale a Salvini logicamente – visto che a quanto pare i poliziotti non sono servitori dello stato democratico ma di una parte – non sembra forse contraddittorio nemmeno simpatizzare per chi a Parigi gli tira addosso le molotov. Viviamo tempi imprevedibili, pieni di contropiedi e spiazzamenti.
Così, alla fine, in questa confusione che sarebbe forse piaciuta al neurologo Oliver Sacks, in questo stordimento degli uomini di stato italiani che si riconoscono nell’antistato francese, nei ministri democraticamente eletti che si riconoscono nella strategia da black bloc, il più normale sotto il tendone è Alessandro Di Battista. Non è al governo, non siede in Parlamento, registra il calo di consensi di Di Maio e dunque dal cinematografico Sudamerica nel quale si è rifugiato si atteggia a Che Guevara attraversato da brividi di erotismo rivoluzionario: “La battaglia dei gilet gialli è sacrosanta. Il M5s la sostenga”. Ma almeno lui non controlla la polizia, non è il capo del governo, né scrive la legge di Bilancio ispirandosi alla jacquerie. Esprime esagitazione, sì, ma ben chiuso nella gabbia di Facebook, con altri esagitati. Certo le gabbie si possono anche aprire. Ma non buttiamoci troppo giù.