Serve una minoranza creativa
Nel mondo del gilet giallo universale non basta più sentirsi élite
Milano. C’era una volta, neppure troppo tempo fa, un partito che aveva deciso di adottare uno slogan kennediano, “I care”, e si era dato l’obiettivo di una vocazione maggioritaria. Niente paura: questo non è un articolo sul Pd. Qualche giorno fa ha ricevuto il Nobel per la pace il medico congolese Denis Mukwege, “l’uomo che ripara le donne”. Lo ha ricevuto perché, sfidando il senso di minorità dettato dall’orrore della situazione in cui operava, ha avuto il coraggio del “prendersi cura”, come ha scritto Paola Peduzzi. “He cares”. Ma non è nemmeno un articolo sul prendersi cura, questo. Il tema è la presa d’atto di non essere più una maggioranza – chi? Quelli che credono all’Europa o alla democrazia; quelli che credono nella società aperta, quelli che non vogliono avere paura e non odiano “tutte le nostre donne e tutti i nostri amici”, come diceva un poeta. Quelli che non sono vittime del “sovranismo psichico”, come dice il Censis. Tutti noi, o quel che resta – e la necessità di essere una “minoranza creativa” come diceva Benedetto XVI a proposito di un cristianesimo che non era più maggioranza. Niente paura: questo non è un articolo sulla religione. Al massimo, è Natale, è una riflessione per “tutti gli uomini di buona volontà”. Nulla come Parigi in questi giorni sintetizza l’esprit del momento. Se sono un trucker vandeano alle prese col caro benzina, nessun politico di Parigi, nessun sindacato locale può decidere per me. Sfascio tutto e avrò ragione. Chi la pensa diversamente, e pensava fino a ieri di incarnare un pensiero condiviso, di maggioranza, s’è scoperto solo. Come Macron. Anzi peggio, come un élite.
Vale per tutto. Se sono un andaluso, non ne voglio sapere di immigrati e catalani. Se sono Trump, solo dazi. Se sono un disoccupato, voglio il mio reddito gratis, e crollasse pure il pil. Moltiplicate gli esempi, ma la maggioranza degli individui non la pensa come quel che resta di una antropologia sociale o di una cultura politica condivisa e dominante fino a qualche tempo fa, nelle sue pur diversissime espressioni. Per una volta bisogna dare ragione a Marco Travaglio, che ieri a proposito del governo italiano ha scritto: “Solo chi non capisce nulla può seguitare a considerarlo un bizzarro incidente di percorso”. Ciò che è accaduto, in Italia e nel mondo non è il casuale impazzimento dei social, o il potere dei troll. Ha una lunga dinamica. Il Dna, o l’algoritmo collettivo di oggi ha una cifra: l’individualismo, la monadizzazione. Non c’è più un legame condiviso, che sia di classe, di partito – sul Monde lo storico Pierre Rosanvallon, a proposito dei gilet gialli, rifletteva che la crisi più profonda delle democrazie è una crisi di rappresentanza: perché qualcuno dovrebbe rappresentare me? – men che meno di famiglia (torna la nazione: ma è l’ultimo rifugio delle canaglie). Da come acquistiamo, a come ci accoppiamo, a come costruiamo le nostre quote cento di sicurezza (inevitabilmente a danno di qualcun altro: ma che importa?), questa è la logica. Tutt’al più, il branco, l’unico apparente antidoto al senso di solitudine di massa. Che tutto questo non avesse conseguenze sulla politica, è folle pensarlo. Il mondo che abbiamo condiviso – diritti e tutele per tutti, qualcuno delegato a sovrintendere, apertura mentale a ciò che è diverso, persino la tolleranza (siamo o non siamo diventati nevrastenici?) – non c’è più. Chi si ostina a crederlo è una minoranza – anzi l’accusa è “élite” – e tale si deve rassegnare ad essere. Come si reagisce a questo? Sapere, avere ragione, ribattere colpo su colpo sono una logica da campo accerchiato: la faccia algida delle élite è la faccia pallida, cera che si scioglie, di Macron. Non funziona.
Essere una minoranza creativa. Chissà. “Direi che normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro”, disse Ratzinger nel 2009. Che le minoranze creative determinano il futuro è un pensiero di un ottimismo formidabile. Essere minoranza può essere sorprendente, costringe a cambiare stile e inventare strategie. Essere una “minoranza creativa” pro europea, o nella politica italiana, o nel pensare che l’interesse generale vale più del resto è una cosa diversa da essere una élite. C’è la stessa differenza qualitativa, che passa popolo e moltitudine. Nel suo monumentale Homo Europaeus Paolo Prodi scriveva: “Il compito da affrontare è quello di ricostruire un’identità collettiva come articolazione complessa, come appartenenza multipla a livello cittadino, regionale, nazionale ed europeo: senza alcun baricentro unico, ma con diversi equilibri all’interno di un terreno comune riconosciuto come tale”. Attrezzarsi a essere una minoranza creativa non significa né cedere né sparire. Anzi è non mollare di un metro, significa dare testimonianza, prendersi cura, fare informazione, fare leggi. Ricostruire trame di rapporti sociali che dal monadico e tribale ridiventino, almeno, contrattazione liberale o comunitarista. Una cosa un po’ gandhiana, forse, le elezioni non si vincono da minoranza. O almeno, non subito.