Il contratto di governo è fallito: basta popcorn
Non basta ridurre il deficit per ridare credibilità all’Italia. E’ ora di un’alternativa per cambiare governo
Il problema dell’Italia in fondo è tutto qui: ma se una nave si ritrova di fronte a un gigantesco iceberg, la sua rotta potrà mai essere considerata sicura soltanto perché il sole di quell’iceberg ha sciolto la punta? Nel caso in questione – nel caso italiano – la rimozione della punta dell’iceberg coincide con la possibilità che all’interno della manovra il governo del cambiamento porti il rapporto tra il deficit e il Pil al 2,04 per cento. Ma quello che gli scendiletto del populismo non hanno il coraggio di dire è che l’intervento con retromarcia sul deficit, per quanto necessario, non è sufficiente per spazzare via il vero iceberg che da sei mesi sta mettendo a rischio il futuro del nostro paese: il contratto di governo. Al contrario di quello che vorrebbero far credere gli scapestrati sostenitori del populismo, l’Italia non è diventata un rischio per aver promesso di violare le regole sul deficit ma per avere messo in cantiere una serie di riforme e di iniziative – pensioni, lavoro, banche, sostenibilità dei conti pubblici – finalizzate a distruggere tutto ciò che negli ultimi anni aveva permesso all’Italia di diventare un paese affidabile, capace cioè di creare lavoro, conquistare investimenti, attrarre capitali, stimolare crescita, salvaguardare la ricchezza finanziaria e pagare un numero sempre maggiore di interessi sui titoli di stato.
L’iceberg che non permette all’Italia di tornare a una navigazione normale non è dunque legato al deficit ma all’essenza del patto sfascista firmato da Di Maio e Salvini. E il dato più significativo – e forse più importante – che emerge dalle trattative sulla manovra non è legato tanto alla possibilità o meno che il nostro paese riesca a evitare una procedura di infrazione sul debito ma è legato all’affermazione di un dato ormai difficile da negare anche per i due partiti di governo: i rischi dell’Italia sono inversamente proporzionali alla possibilità che il contratto di governo venga attuato. E ciò che rende la manovra del cambiamento politicamente rilevante per il futuro dell’Italia non ha nulla a che fare con i provvedimenti contenuti nella legge di Stabilità ma ha a che fare con un implicito messaggio politico contenuto tra le righe del negoziato con l’Europa: cari amici della Commissione, lasciateci tranquilli fino alle elezioni europee, aiutateci a non aggravare i problemi che con le nostre pazze promesse senza coperture abbiamo creato all’Italia e noi in cambio non giocheremo più con il deficit, rinvieremo l’attuazione delle nostre promesse a dopo le europee e scaricheremo buona parte degli oneri di questa manovra – a partire dalle nuove clausole di salvaguardia sull’Iva – sulla prossima legge di Stabilità, che probabilmente, come avrete capito, forse non saremo noi a fare.
Di fronte alla retromarcia economica e politica del governo si potrebbe ironizzare a lungo sull’umiliazione dei populisti che avevano trasformato in modo insensato il 2,4 per cento in una battaglia di vita o di morte arrivando a dire, come fatto il 2 ottobre dal capo politico del Movimento 5 cabaret, Luigi Di Maio, che “tornare indietro da quel 2,4 significa dire agli italiani non andate più in pensione, non vi alziamo le pensioni minime, non risarciamo i truffati delle banche e non facciamo più il reddito di cittadinanza”. Ma più che maramaldeggiare sul fatto che la stabilità dell’Italia è direttamente collegata alla disfatta politica del governo del cambiamento, ciò su cui vale la pena concentrarsi è il messaggio veicolato da mesi dal partito del Pil, che è lo stesso messaggio ribadito ogni giorno dagli imprenditori al presidente della Repubblica, che è lo stesso messaggio ribadito ieri a Milano degli splendidi artigiani arrivati da tutta Italia per protestare contro il governo della decrescita, lo stesso messaggio che sarà ribadito sabato a Verona dal Comitato infrastrutture Veneto che scenderà in campo per ribadire il suo sì all’Alta velocità.
Il punto è semplice: senza eliminare l’iceberg, senza eliminare cioè il governo dei populisti, la navigazione dell’Italia sarà sempre a rischio. Per questo, di fronte all’ammissione implicita da parte dei populisti dell’inapplicabilità del proprio contratto, di fronte alla sterilizzazione del deficit, di fronte al ridimensionamento della quota cento, di fronte alla trasformazione del reddito di cittadinanza in una semplice e minimale espansione del già esistente reddito di inclusione, il vero dato su cui dovrebbero riflettere con urgenza le forze di maggioranza e quelle di opposizione – e forse anche il Quirinale – è come trovare il modo per porre fine all’agonia di un governo irresponsabile che risulta non credibile persino quando prende scelte sagge. La retromarcia del governo certifica la fine anticipata del contratto di governo. E non sappiamo se abbia ragione Giancarlo Giorgetti quando agli imprenditori amici dice, testualmente, “che una volta finita la manovra è finito anche il governo”. Sappiamo però che qualche giorno fa Matteo Salvini, gustando una buona amatriciana in un ristorante romano a due passi da via dell’Orso, ha detto a un amico che non sa quanto il governo durerà ma che è convinto che in un modo o in un altro nel 2019 si andrà a votare. Una buona opposizione, più che spernacchiare il governo e più che sgranocchiare popcorn, di fronte al fallimento del contratto dovrebbe rimboccarsi le maniche e trovare un modo per essere quello che oggi non è: un’alternativa strutturata non per fare ascolti in un talk-show ma per fare di tutto per tornare a guidare il paese.