Il partito dell'anti pasta
I politici si vergognano di mangiare, e a Roma falliscono le trattorie. Salvini, Di Maio e l’eccezione di mercoledì sera
Cosa hanno bevuto? “Una bottiglia di vino rosso… ma in cinque”. E cosa hanno mangiato? “Hanno mangiato poco”, ha risposto il proprietario dell’Arancio d’oro, ristorante a due passi da Palazzo Chigi, mettendo le mani avanti, con saggia cautela, ché mangiare è già forse un indizio d’immoralità sospetta. “Attovagliarsi”, direbbe qualcuno, rimanda al risucchio dell’ostrica, allo sciampagnino, all’ingozzamento programmatico, alle panze da crapuloni e forchettoni, all’abbacchio che sfuma e al vinello che cala, insomma alla casta e alla vecchia politica, al magna-magna, come quando il povero ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, appena scarcerato ai tempi di Tangentopoli, fu beccato con un piatto di spaghetti a… I Due Ladroni. E allora mercoledì notte Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, con Riccardo Fraccaro e Giancarlo Giorgetti, hanno mangiato, sì, “ma poco”.
E infatti i politici della Terza repubblica non si fanno mai vedere mentre mangiano, piuttosto divorano un panino di gomma alla bouvette, e sono frettolosa e salutista (e pure sparagnina) clientela per i bar che servono centrifughe e tramezzini all’avocado, tra via Campo Marzio e Piazza delle Coppelle (i cinque stelle amano la pizza al taglio del Ghetto). Così in via Metastasio ha chiuso il ristorante di Alfredo Pezzotti, l’ex maggiordomo di Berlusconi, dove pranzava Fedele Confalonieri e dove nella saletta riservata si ritrovavano i colonnelli di Forza Italia. Chiuso anche Quattro Colonne, a Piazza Navona, dove Ciriaco De Mita riuniva l’ufficio politico della Dc, memoria dei tempi in cui i cronisti battevano cucine e saloni di ristoranti, lì dove il pranzo politico avanzava di cotica in cotica, di ragionamento in ragionamento. Dunque, malgrado l’austerità, senza forse nemmeno rendersene conto, i maggiorenti del cambiamento l’altra notte hanno compiuto un gesto in un certo senso scapigliato, in controtendenza. Un ritorno al passato, in quel cimitero di ristoranti chiusi e in crisi che nel centro di Roma un tempo vivevano copiosamente di cibo e politica, gestualità delle mani che come badili nell’aria vagavano, tra deputati e senatori, clientes e sottobosco: un cosmo apparentemente eterno e che invece è rimasto schiacciato sotto il peso simbolico del mangiare, dei suoi costi e dell’immaginario che inesorabilmente tutto ciò si trascina dietro come un fardello peccaminoso in tempi di “spazzacorrotti”, “traffici d’influenza”, corruzione allargata come un elastico e moniti europei contro “le cene con i parlamentari”.
E allora addio enoteche e trattorie e osterie e ristoranti. Chiude Mario, in via della Vite, e hanno chiuso anche le salette con séparée del Toulà, che fu prima il ritrovo doroteo di Antonio Bisaglia e Carlo Bernini, e poi il ristorante che accoglieva Luca Zaia ai tempi in cui l’attuale presidente del Veneto fu ministro dell’Agricoltura. Adesso è tutto un “noi le ostriche no!”, “al massimo un centrifugato!”. Dice Gianfranco Rotondi, democristiano impenitente: “La Roma che con i Cinque stelle ha criminalizzato la politica, e i suoi riti anche mangerecci, ha abbattuto il suo business sociale”. Insomma Roma senza politici a tavola è un po’ come sarebbe Milano senza la Borsa, o senza le boutique di via Montenapoleone. Ma l’antico mondo è stato rivoltato, forse per sempre, col suo carico di carbonara e politica, e dunque ha chiuso persino San Teodoro al Campidoglio, il ristorante preferito dai faccendieri che avevano a che fare con il comune e le commesse pubbliche. Un giorno di tanti anni fa fu probabilmente profetico Francesco Storace, quando disse: “Siamo carne da cannelloni”.