Poveri noi. Questo reddito di cittadinanza è nato male, se è nato
Produzione di ricchezza e redistribuzione: la povertà si riduce con altri mezzi rispetto a quanto si va promettendo e facendo e disfacendo oggi
Non voglio dire che i poveri non esistono. Si vedono. Per i cristiani sono questione evangelica, dunque estremamente rilevante, direi decisiva. Per chi ragiona fuori della lezione e dall’incanto della fede e della sua narrazione nei secoli, che ha fissato nel povero l’icona vivente del Cristo, un soggetto e oggetto di attesa messianica, i poveri sono un problema sociale. Si è poveri perché nascita e ambiente non hanno fornito la possibilità di conquistare un reddito stabile e dignitoso. Perché si è fatto fronte agli imprevisti alle curve della vita senza fortuna, senza appoggi, senza il riequilibrio di un’assistenza ben diretta e programmata, la famiglia, la comunità, lo stato. Perché la mobilità sociale è bloccata da mille impacci, e da qualche privilegio o prepotenza che toglie senza dare. In molti casi la povertà è l’effetto di una decadenza, di un fallimento, di una mancanza di energia e di tenacia o della loro vanità. In qualche caso si è poveri per vocazione, nel senso che non si desidera la condizione di relativo conforto, in genere prodotta dal lavoro come fattore di spinta e inquadramento sociale, che normalizza, irregimenta, compatta socialmente e psicologicamente nei confini di una vita che può essere arida, senza avventure, desacralizzata dal benessere: marginalità e accattonaggio sono antiche come il mondo. Sono poveri gli stranieri, i senza patria, le vittime in fuga da catastrofi civili e naturali, i profughi.
Il reddito di cittadinanza nasce prima del vaffanculo di Grillo e della galoppata elettorale dei grillini. E’ un’invenzione delle élite, nasce in ambiente capitalistico e in una cultura socialdemocratica. Le nazioni del Nord europeo, generalmente bene amministrate, ordinate socialmente, prive di giganteschi squilibri e di morali private o familiste, ricche di un’etica del lavoro come chiamata, vocazione, Beruf, hanno trasformato con senno e con difficoltà la filantropia, un genere di carità privata americano non privo di bellezza e costruttività e non sprovvisto di un certo tasso di ipocrisia, in estensione generalizzata del dominio del welfare, il benessere relativo garantito dalle politiche pubbliche. In fondo il divario di produttività e di slancio economico tra Europa e paesi in tumultuosa crescita, temperato da primati antichi nella finanza e nelle tecnologie, ha tra le sue ragioni questa: la presa in carico della cittadinanza da parte dello stato sociale, fino alla estrema misura del sostegno diretto al reddito.
Ma in Italia, senza voler denigrare per principio, il reddito di cittadinanza è nato male. Se è nato, del che è lecito dubitare. E’ che qui le cose non si conoscono bene, e se si conoscano, si preferisce nasconderle sotto un velo d’ignoranza. Vi ricordate la tessera sociale di Tremonti? Fu un fallimento, o comunque un intervento marginale e infelice che nemmeno i destinatari apprezzarono e usarono come in teoria avrebbero potuto. Ci abbiamo messo una pietra sopra, non abbiamo studiato la parabola incresciosa di quel tipo di socialità di stato, non abbiamo imparato la lezione. Ora ci risiamo. I miliardi scendono da nove a sette, e vabbé, sennò meècati e norme europee ci fanno a pezzi. Ma poi la platea dei recipienti potenziali si riduce: se hai una macchina immatricolata di recente, nisba; se hai una casa in proprietà, due lire; se hai una seconda casa, nisba; se hai cinquemila euro in banca, nisba; se, se, se, e con una ulteriore graduazione dovuta al nucleo familiare e ad altre caratteristiche sociali della povertà in cui alla fine, coi tutori o navigatori o non so quali altre diavolerie, non ci si raccapezza più nessuno, e presto saremo molto vicini al sostegno all’inclusione, minimo, già varato dai precedenti governi. Né ha senso parlare della relazione tra sostegno al reddito e guida all’inserimento nel mercato del lavoro: sogni, arabeschi. Da noi il reddito di cittadinanza è già una lotteria, un gioco di simboli e numeri che inevitabilmente scatenerà insoddisfazione, invidia sociale, che oppone la bandiera della lotta al degrado del Sud alla bandiera della promozione dell’economia sviluppata del Nord e delle sue cosiddette classi laboriose. La fiscalità generale diventerà oggetto di un confronto divisivo che probabilmente manderà all’aria tutti i giochi predefiniti miranti a fare di una misura di lotta alla povertà, peraltro abolita con una dichiarazione di Mr Ping, uno strumento banale di consenso, la faccia in ombra di un plebiscito forsennato e demagogico, tragicomico.
E’ appena ovvio. La povertà, se sia sradicabile del tutto è dubbio, sarà comunque fortemente ridotta dalla produzione di ricchezza, unico antidoto, e la redistribuzione per curare le inevitabili ineguaglianze dello sviluppo avviene anche con misure di sostegno diretto, ma sopra tutto con una buona scuola, un mercato del lavoro sensato, la diffusione di una cultura del territorio che crea appartenenza, comunità, compattezza sociale, libertà, spirito d’iniziativa e responsabilità. In poche parole, il contrario di quanto si va promettendo e facendo e disfacendo oggi.