Cosa insegna la chiusura del Weekly Standard
Cosa fanno gli editori se i giornali hanno senso più per la democrazia che per il profitto?
Il Weekly Standard chiude. Anche online. L’edizione in carta stampata di questo settimanale washingtoniano era stata cancellata qualche tempo fa. E’ un peccato. E’ stato un buon giornale, fondato da Bill Kristol, da Fred Barnes e da John Podhoretz. Non che tutti dovessero essere d’accordo con quello che c’era scritto, quello che ispirava dal 1995 il team dei fondatori e dei successori, anzi, spesso il suo fascino è stato la proposizione e argomentazione di idee critiche, ipotesi, tesi assertive e analisi di fatti in conflitto con quello che gli americani chiamano il mainstream, la corrente di maggioranza, la mentalità dominante. Lo Standard era la cultura conservatrice non bru-bru contro il politicamente corretto della sinistra progressista frou-frou. Era un nostro parente. Vissuti a lungo del sostegno (un terzo ciascuno) di lettori acquirenti, privati e sponsor in assetto azionario e pubblicitario, finanziamenti pubblici per l’antimercato dei giornali di idee, laddove negli Stati Uniti tutto è abbastanza rigorosamente privato, noi eravamo diversi come formula editoriale, a parte il fatto di essere un giornale quotidiano, ma non poi così tanto. Senza ostentarla, le due testate hanno goduto di autonomia e libertà, e dietro c’erano pochi soldi, benedetti e subito, destinati a un’amministrazione austera, piccoli format a circolazione limitata e a influenza crescente nelle circostanze di politica e cultura cangianti di questo quarto di secolo turbolento, collocato tra due secoli.
Gli italiani sono meno coraggiosi, operosi, credenti e visionari degli americani, ma anche meno stupidi, nella media. Per questa ragione se lo Standard, che come noi ha puntato sull’imperialismo democratico e libertario come chiave di volta della politica americana dopo l’11 settembre, sostenendo la guerra in Iraq e in Afghanistan, e ne ha pagato a lungo le conseguenze con una specie di ostracismo culturale e ideologico, perché la damnatio memoriae ha colpito l’impresa di Bush e Cheney e Rumsfeld molto al di là dei suoi limiti politici (e c’è un film pieno di scemenze su Cheney che si avvia a un percorso hollywoodiano trionfale, dopo un bel libro critico ma onesto di Burton Gellman del 2008), a noi questa posizione non è valsa altrettanta ostilità e antipatia sentimentale, parecchia ma non altrettanta. Hillary Clinton è stata battuta da Trump l’Impostore dopo essere stata massacrata dal mainstream pacifista che non le ha mai perdonato il voto favorevole alla guerra contro Saddam Hussein, una democratica in alleanza trasversale con i poteri neoconservatori nel nome di una risposta strategica allo scontro di civilizzazione, e così il mainstream ha avuto quel che si meritava, in un certo senso. Ma non conta ora rivangare vecchie storie americane e internazionali molto istruttive, storie di cui lo Standard, noi e altri hanno fatto parte, facendo giusta o sbagliata la loro parte.
Con la chiusura dello Standard, sopra tutto per il modo, emerge un altro problema. Che ci fanno gli editori con i loro giornali, quando questi giornali hanno un senso per la cultura, le idee, la circolazione degli argomenti tipici di una democrazia liberale, più che per il commercio, il profitto d’impresa cosiddetto puro o una collocazione tribunizia spiccata, demagogica e di parte? Non serve che risponda io. Trattando la questione, lo ha già fatto molto bene David Brooks, columnist del New York Times dopo esser stato, tra l’altro, un apprezzato collaboratore dello Standard, e con Bill Kristol, David Frum e altri un amico della ditta italiana del Foglio (li ricordo vivaci ma gravemente prostrati dopo un mitico pranzo da Checco, che era il ristorante di riferimento del giornale in versione trasteverina).
Ecco Brooks. “Della chiusura del Weekly Standard si parla come di una storia dell’èra Trump, come sempre di questi tempi. La rivista era critica di Trump, e così questa sua fine è un esempio ulteriore della graduale crescita di egemonia del trumpismo nel mondo conservatore. E’ lo sfondo di quanto è accaduto. Ma non è tutta la storia. In realtà, questo è quel che succede quando capitali aziendali si impossessano di un giornale d’opinione, cercano di abbassarlo al loro livello e poi si arrabbiano e si risentono quando la gente che ci lavora cerca di mantenere una misura accettabile di qualità intellettuale. E’ quello che accade quando gente con un assetto mentale populista decide che un’opinione ignorante ha lo stesso valore di un’opinione istruita, che l’ignoranza vende meglio della mente educata. In questo senso la chiusura dello Standard assomiglia alla distruzione del settimanale New Republic da parte di Chris Hughes*. Questo è quello che succede quando forze commerciali, intente ad appropriarsi dei media americani, incontrano un gruppazzo di persone che a queste forze cercano di resistere. Lo Standard era conservatore, ma dissentiva spesso dall’establishment del Grand Old Party e si compiaceva della moderna pop-culture. La redazione non era mai unanime su alcun argomento. Nelle pagine del giornale erano sparpagliati i molti sensi e sapori del conservatorismo. Se c’era una sua battaglia di principio, era questa: la buona vita consiste nell’essere cittadini attivi che si interessano appassionatamente della politica; consiste anche nel sapere qualcosa della letteratura latino-americana, della cultura greca antica e dell’impatto sociale della genetica moderna; e altresì consiste nel divertirsi per l’ultimo buon film o l’ultimo buono show televisivo, i migliori nuovi cocktail e i più casuali piaceri della vita”.
*Chris Hughes è un trentacinquenne fondatore di Facebook, ha portato all’annullamento la vecchia e gloriosa testata The New Republic dopo essersela offerta. Gli editori che hanno chiuso lo Standard, impedendone la vendita e la sopravvivenza, sono più attempati, vecchia razza commerciale. I due giornali erano in perdita, che è in parte la morale della favola, ma non tutta la morale.