Nessuna discussione. Così la manovra del governo prevale sul Parlamento
Il teatrino su un testo fantasma e la fiducia su quello negoziato in segreto con l’Ue sono una ferita per la democrazia
Se la legge di bilancio serve al Parlamento per autorizzare, e dunque controllare, le decisioni di spesa del governo, averne quest’anno ridotto ai minimi termini la discussione alle Camere vuol dire aver, di fatto, esautorato il Parlamento dal suo ruolo. L’impressione, non isolata, è che le peggiori prassi parlamentari (sedute notturne, maxiemendamenti, assalti alla diligenza) – in grande sfoggio alla fine di ogni anno, tra milleproroghe e bilancio – abbiano, in queste settimane, ceduto il passo a una novità ben peggiore: l’assenza pressoché totale della fase parlamentare. Non un’inezia, in una democrazia parlamentare che si rispetti. Dato che non di inezia si tratta, bisogna quindi verificare se l’impressione sia fondata o se sia frutto della memoria corta di noi elettori.
L’esame del disegno di legge di bilancio è iniziato alla Camera il 6 novembre, in commissione. Un mese dopo, si apriva la discussione in Aula, conclusa l’8 dicembre con voto di fiducia. Il 10 dicembre, il testo veniva assegnato in commissione al Senato. Il termine di avvio della discussione in Parlamento non si discosta da quelli degli ultimi anni: difatti, bisogna risalire fin al 2012 per trovare l’ultimo bilancio (allora noto come legge di stabilità) il cui esame in aula fosse iniziato già alla fine di ottobre. Quanto alle questioni di fiducia, queste sono state evitate soltanto due volte negli ultimi dieci anni: nel 2010 e nel 2011. In entrambi i casi, furono sufficienti solo due letture, una alla Camera e una al Senato, con tempi molto rapidi, come di consueto, per l’ultima lettura (nel 2011 la discussione, tra commissione e Aula, durò appena due giorni). In tutti gli altri, il testo è stato sottoposto anche a più di una questione di fiducia (con l’eccezione del 2009, quando la allora finanziaria venne sottoposta a un solo voto del genere, in seconda lettura alla Camera). Per quattro volte, invece, sia Camera che Senato hanno votato sotto la tagliola della fiducia (2012, 2014, 2015, 2016): nel 2013 e nel 2017 questa è stata chiesta addirittura per ben tre volte. La questione di fiducia, come noto, non serve solo ad assicurarsi il voto compatto della maggioranza, ma soprattutto a blindare il testo sottoposto al voto, che non può conseguentemente essere emendato: da qui, la tecnica del maxiemendamento, che rende pressoché inintelligibile il testo agli stessi parlamentari. In ben cinque occasioni (2012-2013-2014-2015-2017), poi, l’uso della fiducia non è servito solo a sottrarre il testo alla revisione parlamentare, ma addirittura a consentirne l’integrale riscrittura da parte del governo, con conseguente alterazione della dialettica costituzionale tra legislativo ed esecutivo: con il primo non più nel ruolo di autorizzazione e controllo, ma di mera ratifica delle decisioni di spesa già prescelte. Quanto al termine di approvazione finale, solo nel 2010, 2016 e 2011 il disegno era già legge prima di metà dicembre. Nel 2011, venne approvato definitivamente il 12 novembre, ma si trattò di un caso particolare dovuto alla crisi del governo Berlusconi IV: in questo modo, al gabinetto uscente fu consentito di adottare l’ultima sua rilevante decisione e il Parlamento ne accelerò i tempi di deliberazione per consentire poi il cambio di esecutivo. Negli altri casi, si è sempre arrivati alle porte del Natale: il 22 dicembre nel 2009, 2014 e 2015; il 21 nel 2012; il 23 nel 2013 e 2017. Proseguendo la comparazione, un limite temporale è stato invece superato quanto al termine di inizio della seconda lettura, ossia il momento a partire dal quale il secondo ramo del Parlamento, dopo l’approvazione del primo, intraprende il proprio esame. Solo quest’anno si è arrivati al 10 dicembre, mentre negli anni precedenti la discussione ha preso avvio tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Il confronto dei termini e delle procedure sembra indicare che, tutto sommato, l’iter di approvazione della legge di bilancio per il 2019 non si allontani molto dalla prassi degli ultimi dieci anni.
C’è però una diversa e ulteriore considerazione che giustifica l’impressione che mai come quest’anno il governo abbia soverchiato il Parlamento. In spregio al dibattito parlamentare, l’esecutivo giallo-verde ha presentato alle Camere un testo che sapeva, e diceva, non sarebbe stato quello effettivo. L’aver dovuto condurre, in parallelo alla discussione parlamentare, il negoziato con la Commissione europea ha reso tale discussione una specie di intermezzo con cui riempire la scena politica, mentre dietro le quinte si scarabocchiava ancora il copione. In altre parole, l’iter della legge di bilancio sì è svolto, più o meno, secondo i termini come da prassi, ma in modo patentemente vano, visto che, ancora oggi, a dieci giorni dal termine finale per non entrare in esercizio provvisorio, il testo su cui si dovrebbe davvero svolgere semplicemente non esiste.
Se la democrazia parlamentare fosse riconosciuta dagli italiani come un valore da difendere e se il contratto di governo fosse ritenuto una promessa da mantenere almeno per quanti hanno votato Lega o Cinque Stelle, a uscire malconcio dal teatrino consumatosi intorno alla manovra di bilancio dovrebbe essere proprio il governo. Eppure, la sensazione è che anche questa volta la combinazione perfetta giochi a suo favore. Salvini e Di Maio potranno sempre dire che l’Europa dei cattivi non ha consentito di fare le politiche tanto desiderate, e su questo costruire la loro campagna elettorale per l’Europa dei giusti. Ancor peggio, aver fatto condurre una discussione su un testo fantasma è stata la garanzia migliore, per chi non aveva grandi idee da concretizzare, per evitare il confronto con l’opinione pubblica.
La discussione in Parlamento intorno alla legge di bilancio ha un grande pregio, che non è quello del confronto tra maggioranza e minoranze (all’opposto, spesso, occasione per le peggiori prassi di iniziative parlamentari di spesa), bensì quello di consentire agli elettori di conoscere ciò di cui si sta discutendo: diversamente da quelli governativi, gli atti parlamentari sono pubblici, ed è questa pubblicità che garantisce, prima che il controllo del parlamento, il controllo dell’opinione pubblica. La luce del sole è il migliore dei disinfettanti, come notò il giudice Brandeis: aver impiegato le discussioni parlamentari solo come una distrazione, mentre agli italiani venivano rifilate nient’altro che le esternazioni inverificabili degli esponenti di governo, vuol dire aver messo a tacere la democrazia. Ne valeva la pena per ritrovarsi, alla fine, con il solito bilancio fatto dei soliti ingredienti di blocco di rivalutazione delle pensioni, ecotasse e economia, web tax, clausole di salvaguardia e deficit?