Un augurio malinconico per la coscienza italiana
C’è il rischio di vedere un paese trasformato in una grande curva, intinto di ritualità da sottocultura brasiliana, carnevalesco ma senza allegria. E dovremo sorbirlo fino alla feccia
Vorrei praticare la dolce arte degli auguri ma non ce la faccio. Spero nel meglio, un rapido cuocersi nel suo brodo di un’Italia irriconoscibile e purtroppo stranota, ma temo il peggio. Il reddito della pigrizia e quota cento per le pensioni: ho paura che siano stimoli ulteriori per l’invidia sociale, i conti in tasca agli altri, la caccia farlocca alla prebenda clientelare, la disillusione alla sua giusta quota, perché tu sì e io no?, una specie di guerra civile antimeritocratica sulla nota amara del piccolo privilegio diffuso. Cacciari dice che alta Italia e bassa Italia ridiventano un problema aspro, cancrenoso, e ha ragione. Le autonomie separatiste saranno una zeppa nel nazionalismo sovranista, e l’odio per Napoli e da Napoli farà furore tra i padani e i campani, con un Truce curvista, assaggiatore, indossatore, che voleva fare del Viminale un bivacco di manipoli violenti e diseredati prima di tutto da sé stessi, i suoi amichetti di cordata populista.
L’invidia sociale fu tirata fuori in Italia da Berlusconi per primo, e giudicata dagli snob come una baüsciata brianzola per autoidolatrare una classe predatoria, ora è sulla bocca degli intellettuali rive gauche impressionati dai gilet gialli e dalla loro psicologia ributtante. Berlusconi viene riabilitato ogni giorno con giuramenti sanguigni da chi lo combatté non con fierezza e argomenti, ma con emozioni plateali e bugiarde e con una spinta ideologica carica di rancore. Ora si rivaluta un caposaldo della sua cavalcata liberale distrutta dall’accozzaglia, la denuncia della micragnosità, della meschineria, l’immersione pauperista nella Schadenfreude, la gioia per il dissesto dei socialmente più forti e la gogna corrispondente.
Dio ci scampi da un 2019 di coscienza italiana decomposta, in cui si tirino le somme delle pulsioni egoiste, razziste, autoritarie e di sottomissione che hanno trionfato nel 2018. L’invidia è un mostro mitologico, divoratore delle comunità e delle identità. Rabbia, frustrazione, insopportazione e rigetto di chi sa, di chi ha, il tutto immerso nel rifiuto di ogni sapere, di ogni curiosità, di ogni spirito di libertà, responsabilità, emulazione, e in una brama senza senso alla caccia di un iPhone e di un paio di sneakers o di qualcosa che valga la pena di una lunga fila notturna, di una scazzottata eventuale, di una smerdata offerta al gran teatro della maldicenza generica, pusillanime, opaca. La globalizzazione prometteva sharing economy, cioè soluzioni e mediazioni di individualismo e socialità, una specie di diffusione della proprietà privata come critica della proprietà privata, ora la chiusura sociale garantisce non il ritorno della lotta di classe, ma la minutaglia zeccosa dei risentimenti di ciascuno verso il vicino. Vedremo un paese trasformato in una grande curva, intinto di ritualità da sottocultura brasiliana, carnevalesco ma senza allegria, e dovremo sorbirlo fino alla feccia. In genere gli auguri di buon anno sono un modo per mettere il buonumore e le aspettative che una volta erano dette crescenti alla portata di tutti i messaggi. Ora gli auguri credo debbano essere più malinconici e consapevoli.