Il laboratorio del populismo
Antipolitica e “gentismo”, una storia lunga e un po’ penosa che comincia negli anni della Prima Repubblica, con il delitto Moro, e passa per Pertini, Berlinguer, Cossiga, Di Pietro
Ora che l’esercito populista sta cominciando forse – forse – a discendere da alcune delle sue alture, sarà il caso di cercare di capire come si è potuto arrampicare fino a lassù.
Se è vero che la sconfitta è orfana e la vittoria ha molti padri, si può dire che la vittoria del populismo sia stata figlia di molte gesta degli sconfitti di questi anni. I quali tutti, o quasi, chi più chi meno, hanno fatto del loro meglio per spianare la strada ai loro antagonisti, seminando una grande quantità di equivoci sulla vita repubblicana e illudendosi che a furia di spargere demagogia nei propri dintorni ne avrebbero ricavato un vantaggio. Con l’effetto alla fine di sancire l’egemonia culturale del populismo molti anni prima che esso diventasse un fenomeno politico condiviso a quanto pare dalla maggioranza degli elettori di casa nostra.
L’egemonia culturale del populismo sancita molti anni prima che diventasse un fenomeno politico condiviso dalla maggioranza
Con Mani pulite, il valore della militanza politica viene deprezzato drasticamente. L’efficacia della predicazione berlusconiana
E’ una storia lunga e un po’ penosa, che comincia una quarantina di anni fa e che attraversa le più varie e disparate avventure politiche di cui ci siamo nutriti mentre ci illudevamo di compiere la felice traversata che avrebbe dovuto condurci dall’oscurità polverosa della tradizione antica alla luce della modernità.
La torsione della nostra storia comincia – io credo – nella dannata primavera del 1978, quando le Brigate rosse rapiscono e uccidono l’onorevole Moro. E’ quello il punto di svolta. Perché la fine di Moro segna l’inizio della fine dei grandi partiti, soprattutto la Dc e il Pci, certo. Ma soprattutto perché a quel declino, di cui allora non ci rendemmo conto fino in fondo, si accompagna nella classe politica un disperato bisogno di spiegazioni confortanti, parole d’ordine consolatorie e semplificazioni un po’ grossolane che rivelavano, già allora, tutta la fragilità del sistema politico.
Nessun esercizio di storia controfattuale ci può raccontare come sarebbero andate le cose se l’epilogo fosse stato diverso. Se Dc e Pci avessero proseguito nel cammino che avevano intrapreso. E se quel cammino avesse portato, prima o poi, all’esito di una democrazia finalmente compiuta, affidata all’alternanza tra due schieramenti vagamente simili a quelli che nel resto d’Europa si affrontavano senza sentirsi minacciati gli uni dagli altri. Quell’esito, in realtà, era possibile ma improbabile. Ma una volta preso atto che esso era precluso, le forze politiche pensarono bene di cercare una scorciatoia, confidando che potesse portare da qualche parte.
Lo Stato celebrò la sua “fermezza”. La Dc celebrò il suo martire. Il Pci celebrò il suo merito di aver reciso ogni indulgenza con il terrorismo. E per qualche tempo il fatto che le Brigate rosse avessero imboccato la loro china discendente sembrò offrire alla politica italiana l’illusione che la difficoltà più drammatica fosse ormai alle nostre spalle. In questa nostra retorica collettiva, non priva di un certo momentaneo sollievo, pensammo tutti, o quasi tutti, che a quel punto avremmo potuto riprendere il nostro cammino forti di una vittoria – sia pure pagata a un altissimo costo.
Le cose, come è noto, non andarono così. E quel gigantesco punto e a capo a cui la vicenda Moro ci piegò fu l’inizio di una lunga stagione di smarrimento collettivo che, passo dopo passo, indusse la gran parte delle forze politiche a cercare percorsi che fossero più agevoli, meno tortuosi, soprattutto meno faticosi di quelli che erano stati intrapresi negli anni precedenti. La pedagogia con cui i partiti avevano cercato di guidare la loro base verso forme di convivenza lasciò spazio a quel punto al malvezzo di dare voce ai pensieri più facili e più facilmente condivisi. Cominciando a inoculare dosi via via più massicce di “antipolitica” nelle strategie dei partiti e dei loro leader.
Quella carovana si mise in movimento senza rendersi conto del tragitto che aveva intrapreso. Ma, un passo dopo l’altro, dal quartier generale della politica e delle sue istituzioni prese le mosse una tentazione collettiva: quella di offrire all’opinione pubblica la suggestione di una classe dirigente che ne assecondasse gli umori senza chiudersi nei propri palazzi e senza più costringersi a una forma di pedagogia che era diventata, tutt’a un tratto, molto meno convinta ed efficace di come era stata fino a poco prima.
Non che prima fossero rose e fiori, tutt’altro. Ma c’era pur sempre un faticoso venirsi incontro, e cercare un briciolo di complicità, e tenere a bada gli istinti delle reciproche faziosità. Soprattutto, c’era la diffusa consapevolezza che la lontananza delle ideologie e insieme la storica frattura tra paese reale e paese legale, come si usava dire, dovessero spingere la classe politica a maneggiare con cura e con molta parsimonia le tentazioni della demagogia. Ma il costo di questa fatica, a quel punto, cominciava a diventare troppo oneroso. E così, piano piano, un passo dopo l’altro, ci si cominciò a rivolgere all’opinione pubblica in modo molto più fintamente compiacente di come si era cercato di fare fin lì.
Dinanzi all’insofferenza dell’opinione pubblica la politica si era sentita in dovere – da sempre, si può dire – di mitigarne gli effetti continuando a iniettare fiducia nelle magnifiche e progressive sorti dell’impegno civile. Si poteva diffidare dell’avversario, ovviamente. E dello Stato, almeno dai banchi dell’opposizione. Ma restava come un punto fermo l’idea che alla fine dalla reciproca, controversa militanza sarebbe sortito un futuro luminoso per la comunità.
Fino alla vicenda Moro, questo presupposto non fu messo in forse più di tanto. Ma di lì in poi cominciò la progressiva discesa agli inferi del sistema politico italiano.
Quando nel 1980 il presidente Pertini si affacciò dagli schermi televisivi per mettere sotto accusa la gestione del terremoto dell’Irpinia si ascoltarono le prime note di uno spartito inedito. Fin lì, i capi di stato si erano attenuti al protocollo, parlando all’occorrenza con parole di circostanza e con spirito consolatorio. Ora, per la prima volta, il Quirinale si poneva invece come l’avamposto della denuncia. Un ribaltamento dei ruoli e dei costumi di cui la nomenklatura dell’epoca si mostrò scandalizzata senza avere la forza di dirlo. Del tutto vanamente, peraltro.
Era un segno, quello di Pertini. L’annuncio che di lì in poi la politica, i partiti, e tanto più i vertici dello Stato non erano tenuti al copione di prima. Finalmente potevano parlare con libertà, sconvolgere ruoli e recite tradizionali e perfino porsi, dal colle più alto della Repubblica, sulla lunghezza d’onda di certi malumori popolari. Quei malumori a cui in altri tempi le istituzioni non avrebbero mai pensato di potere (e tantomeno di dovere) fare eco.
Le istituzioni diventavano così, per la prima volta in modo esplicito, i luoghi della denuncia. E la politica ne ricavava la consapevolezza che non era più il caso di tentare di resistere sulla trincea di una minima impopolarità. Al contrario, la protesta andava assecondata magari anche concedendo qualcosa alle arti di una retorica del tutto inedita.
In quegli stessi anni, intanto, il percorso intrapreso del mondo comunista andava facendosi più complicato e sofferto e il segretario del partito, Berlinguer, si avviava a sotterrare una volta per tutte il mito della virtù del modello sovietico. A quel punto, un altro mito e un’altra virtù dovevano inevitabilmente prendere il posto delle bandiere che avevano sventolato, sempre più debolmente, negli anni della guerra fredda.
Il Pci berlingueriano si trovò così in quei primi anni Ottanta a scavare la sua nuova trincea nei paraggi della questione morale. La fulgida certezza della propria onestà politica e soprattutto la denuncia di tutte le opacità, le forzature, le malversazioni dell’altra parte divennero così il tratto identitario più visibile del principale partito di opposizione. Si dirà che agli avversari democristiani era stato appioppato l’epiteto di “forchettoni” fin dagli anni Quaranta. Vero. Ma solo a partire dagli anni Ottanta quella discriminante morale sembrò diventare lo spartiacque decisivo tra gli uni e gli altri, con una nettezza e una radicalità che stridevano non poco con l’archiviazione della guerra fredda.
Di lì a una decina d’anni quello spartiacque divenne anche giudiziario. Con le inchieste di Mani pulite e la scoperta di Tangentopoli, come fu chiamata, la politica e i partiti di governo vennero a trovarsi un po’ tutti sul banco degli imputati. Ora l’onestà diventava la divisa dei magistrati che avevano preso d’assedio la cittadella del potere, e chiunque avesse fatto parte di quella cittadella era almeno sospettato di chissà quali nequizie. Il valore della militanza politica, che era stato uno dei pilastri della ricostruzione del dopoguerra, venne così drasticamente deprezzato. E sulla fatica di quell’impegno cominciò a gravare l’ombra del sospetto in luogo della fiducia di una volta.
Nel frattempo, ancora una volta dal palazzo del Quirinale, si faceva sentire un racconto politico fantasioso e immaginifico che sembrava quasi divertirsi a mettere sul banco degli imputati una larga parte del ceto politico che si arrabattava in mezzo a quella difficoltà. Dopo i primi anni tranquilli e notabilari, il presidente Cossiga imbracciava il suo “piccone” e prendeva di mira un pezzo di establishment mettendolo alla berlina con una sottile ma non troppo innocente perfidia.
Un presidente sulfureo, irriverente, assai poco istituzionale, perfino buffo, si offriva ora all’opinione pubblica come inedito portavoce dei suoi stati d’animo più inquieti, diffidenti e iracondi. Era un altro tassello di un mosaico che si andava componendo tra insofferenze popolari, esternazioni presidenziali e silenziose incertezze strategiche da parte dei custodi del sistema politico ufficiale – o di quello che ne restava.
Ora, può suonare improprio mettere assieme, un po’ alla rinfusa, le intemerate di Pertini, la questione morale di Berlinguer, le inchieste dipietresche e le picconate di Cossiga. Ma quello che tutte queste vicende avevano in comune era un sottinteso: e cioè che c’era di che diffidare di quanti avevano gestito il potere fin lì. Quasi che, ontologicamente, quel potere avesse in sé un germe di corruzione a cui si doveva opporre non più la forza tranquilla dell’opposizione ma il fremito indignato dello sandalo popolare. Uno scandalo a cui appunto una parte del popolo sembrava dedicarsi a quel punto con inusitata radicalità.
Cominciava la lunga e trionfale marcia del “gentismo”, come venne chiamato. Un nuovo spirito pubblico in virtù del quale la “gente”, un popolo anonimo e indifferenziato, aveva le uniche chiavi di interpretazione della politica. E a sua volta la politica aveva il solo compito di fiutare l’aria e adeguarvisi quasi a mo’ di espiazione di tutti i suoi difetti. Un dialogo finto e vano prendeva il posto di un dialogo che era stato più aspro e più vero.
Una volta presa quella piega, non si tardò a giocare lo stesso gioco da molte altre parti. E appena qualche mese dopo toccò a Berlusconi scendere in campo per cercare di risolvere a suo favore la partita che si era iniziata altrove, con intenzioni affatto diverse dalle sue. Solo che il Cav., con il fiuto dell’opinione pubblica che tutti gli riconoscono, capì che non poteva offrirsi come il continuatore del sistema. Semmai, all’opposto, come il suo commissario liquidatore. E così ebbe cura di tenersi a prudente distanza dai partiti con cui aveva fatto comunella per anni e anni ostentando uno sdegnoso e corrucciato distacco dal “teatrino della politica” e dal professionismo del potere. Con lui, tutto era nuovo, inedito. E tutti quei mondi, quegli apparati, quei costumi che s’era trovato a frequentare così a lungo diventavano ora l’oggetto del suo vituperio – o quasi.
La politica, per come si divertiva a raccontarla Berlusconi, era una disdicevole perdita di tempo. Le riunioni interminabili nelle stanze piene di fumo, il professionismo di mediocri mediatori del consenso, la palude nella quale sguazzavano capi e capetti di partiti e partitini, tutto questo finalmente era destinato a lasciare il passo alla cultura d’impresa. Quella che sapeva “fare”.
A questa regola retorica Berlusconi accompagnò comportamenti assai meno radicali, come è noto. E gli si possono contestare, a seconda dei casi, le cose oppure il loro racconto. Sta di fatto però che la predicazione berlusconiana si rivelò così efficace da far sì che il buon nome della “politica”, che già da un po’ di tempo non era in auge, scendesse molti altri gradini nel gradimento dell’opinione pubblica.
Il mondo che si opponeva al Cav. avrebbe potuto forse rivendicare il merito e il valore di quella militanza che ora veniva irrisa o tutt’al più considerata alla stregua di un retaggio di altri tempi. Ma si trattava, anche qui, di una rivendicazione impopolare. E così anche la gran parte del ceto politico che pure era cresciuto dentro sezioni di partito e si era formato tra congressi e campagne elettorali pensò bene di non contraddire una vulgata che ormai andava troppo di moda.
Secondo quella vulgata, appunto, in Italia di politica ce n’era stata troppa. E quella sua eccessiva densità, e tutte quelle sue pretese e cattive abitudini, avevano dato luogo a un sistema perverso che andava finalmente smantellato. Liberandosi dell’acqua sporca delle troppe intermediazioni interessate. Ma finendo per compromettere la salute, diciamo così, del bambino: e cioè il valore della democrazia rappresentativa.
La fine di Moro, lo smarrimento collettivo, il malvezzo delle forze politiche di dare voce ai pensieri più facili e facilmente condivisi
Il terremoto dell’Irpinia e il Quirinale che si pone per la prima volta come avamposto della denuncia. La discriminante morale
Negli anni seguenti questo modo di (s)ragionare avrebbe guadagnato via via altro terreno. Fino a diventare una sorta di riflesso condizionato. Navigati professionisti provavano l’ebbrezza di raccontarsi come spensierati dilettanti. Governanti di lungo corso si offrivano come portabandiera di un sentimento di opposizione. Gente votata alla politica finiva per trovare conforto in un racconto antipolitico che sembrava andare di moda. Un singolare rovesciamento della realtà che finiva per essere la collettiva fake news a cui ci si lasciava andare con una singolare noncuranza delle conseguenze che questo ribaltamento prima o poi avrebbe prodotto.
In lontananza, cominciavano a quel punto a sentirsi gli echi di parole d’ordine ancora più aspre e radicali. E a mano a mano che si sentiva montare un clima di ostilità sempre più esacerbato nei riguardi del potere, i suoi ultimi sacerdoti pensavano bene di dedicarsi a un rito ancora più (apparentemente) estremo nella sua radicalità.
Siamo arrivati così agli ultimi anni, alla scorsa legislatura. Quella del grillismo d’opposizione che prometteva e minacciava di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. E di contro quella di chi si illudeva di contrastare quella tendenza inscenando una sorta di “grillismo di palazzo”. Quasi che recitando quelle parole d’ordine dai bastioni di Palazzo Chigi se ne potessero esorcizzare gli aspetti più inquietanti.
E’ la stagione di Renzi, della sua rottamazione, di una riforma costituzionale raccontata agli italiani come una battaglia campale nella lotta contro i privilegi, le poltrone, la casta. Un populismo malcelato che cercava di far concorrenza ai detentori del marchio facendo eco ai suoi argomenti e capovolgendone il segno politico. Cosa della quale sarebbe ingeneroso far carico solo e soltanto all’ex leader del Pd. Ma che in lui finiva per trovare – un po’ per i suoi difetti, un po’ perfino per le sue qualità – la sua epitome.
Ora, tutta questa affannosa rincorsa di umori e (soprattutto) malumori potrebbe anche essere catalogata alla voce “sensibilità”, come un modo di capire e intercettare i più diffusi sentimenti popolari. Indica invece – almeno secondo me – qualcosa di peggio. Lo smarrimento di una funzione di guida, per un verso. E una forma di astuto compiacimento, a volte dettato da imbarazzo, altre volte guidato dalla faziosità, per trarre qualche vantaggio dal discredito in cui la politica si stava inabissando. Una scorciatoia che non ha portato molta fortuna a chi ha cercato di percorrerla, ma che ha finito per trascinare protagonisti e comprimari, e anche i loro eredi, fino quasi alla dissoluzione di un antico patrimonio di insediamento nel cuore del paese.
Naturalmente non è in discussione la buona fede delle persone. Molti dei nomi evocati in questo album di famiglia del populismo degli ultimi anni erano persone di valore, dedicate al bene pubblico e convinte di essere nel giusto. Qualche altro pensava di trarre profitto dallo smarrimento dell’opinione pubblica e dunque mescolava abilmente il sacro delle proprio convinzioni con il profano delle proprie convenienze. E qualche altro ancora tirava semplicemente l’acqua al suo mulino.
Ma l’insieme di queste parole, e dei loro sottintesi, portava inesorabilmente nella direzione che solo ora si vede. E cioè verso l’affermazione di una visione delle cose secondo la quale il popolo è – di per sé – portatore di una virtù, di un’innocenza che la sua classe politica ha smarrito irrimediabilmente. Aprendo così tra il “popolo” e la “politica” una contraddizione che nega la democrazia alla radice.
Per chiudere quella contraddizione ci vorrà tempo. Meno di quarant’anni, speriamo.