La “peggio politica” di oggi ha radici nella brutta cultura di ieri
Analisi dell'ultima copertina del 2018 dell’Espresso: di opposizione ma facilona
Oltre ai grandi discorsi politici da antologia che il Foglio pubblica di sabato, credo che conserverò nella mia biblioteca il numero dell’Espresso uscito a Natale. Si occupava del nostro 2018 esercitando una fondamentale attitudine umana: la discriminazione fra il bene e il male. Il numero 52 del 23 dicembre offriva perciò due copertine una dietro l’altra. Nella prima c’erano le Persone dell’anno (“La meglio gioventù”), nella copertina interna comparivano invece le Non persone dell’anno (“La peggio politica”). Dunque due cose di cui storicamente prendere nota.
La meglio gioventù è quella di Antonio Megalizzi, il giovane giornalista morto nell’attentato di Strasburgo, Emma Gonzalez, diciannovenne capofila del movimento per il controllo delle armi private negli Stati Uniti, Silvia Romano, ventitreenne studiosa della tratta di esseri umani rapita in Africa da uomini armati, e altri giovani eccellenti nello studio, nello sport o semplicemente nella buona volontà attiva di non cedere al male.
"Le persone dell'anno". La copertina dell'edizione dell'Espresso uscita domenica 23 dicembre
Ma la seconda copertina è quella che annuncia la maggiore quantità di riflessioni. È dedicata al tipo di “uomo nuovo” detto anche “non persona” per via del vuoto che rappresenta con particolare e fiera arroganza. Qui passiamo dalla società e dalla cultura alla politica, più precisamente alla testa di turco di tutte le opposizioni, l’attuale governo Conte, Di Maio, Salvini. Mi meraviglio forse che le opposizioni si oppongano? Certo che no. Mi meraviglio degli argomenti che vengono usati nella deplorazione, facendo spesso venire in mente che quella delle opposizioni, culturalmente parlando, è un po’ una scoperta dell’ombrello e dell’acqua calda. Viene scoperta la stupidità, la retorica, la scarsa competenza, gli aggiustamenti di rotta, la vanità, la demagogia dei politici. È una scoperta, mi sembra, più sospetta che candida, perché tutto il repertorio di accuse viene riservato agli attuali avversari politici cancellando ogni memoria del passato remoto e recente (implicitamente idealizzato) e dimenticando tutto ciò che da molto tempo era facile capire a proposito di politica e di politici, soprattutto (bisogna dirlo) in Italia.
"Non persone dell'anno". La copertina di retro dell'edizione dell'Espresso uscita domenica 23 dicembre
C’è senza dubbio qualche novità che potremmo definire mutazione culturale dell’intera società (la società degli smartphone e dei selfie) e quindi, inevitabilmente, del ceto politico. Dietro alle recenti novità c’è tuttavia una lunga storia che non riesco a trascurare: la storia della modernità, della democrazia di massa, dei consumi e abitudini culturali o paraculturali (tutto è cultura!) e dell’idea di progresso, nostro primo immortale idolo. La società di massa è il presupposto e la conseguenza della democrazia. Tutti i suoi media di massa in continua innovazione per ragioni di mercato premiano il pubblico offrendo semplificazione, comodità, velocità, vacuità e assenza di mediazioni riflessive. I media informatici, poi, stanno modificando il nostro sistema nervoso, il rapporto e i tempi di percezione e di reazione, quindi il funzionamento emotivo e mentale, strumenti con cui si elaborano consapevolezza e cultura.
La politica viene dopo e sempre di più mi sembra poca cosa in confronto a quanto accade nella vita sociale, culturale, quotidiana. Ma quando si vede che anche “la classe dei colti” ha reazioni brutali e inconsulte, allora si capisce che la cultura come comunemente viene intesa nelle scuole e nelle università non è una difesa contro il peggio. Il fatto che uno dei paesi più “profondamente” colti d’Europa, la Germania, abbia accettato e seguito fanaticamente Hitler, lo ha già dimostrato (è un tema caro a George Steiner). E che una delle forme più elaborate e geniali di pensiero politico moderno, il marxismo, abbia partorito l’Unione sovietica, è stata una prova del fatto che per molti aspetti la modernità culturale, sia d’élite che di massa, non offre garanzie né morali né politiche.
Che ogni progresso comporti qualche non previsto regresso, lo si era capito nel corso dell’Ottocento. Già la società liberale borghese, in seguito idealizzata quando si sciolse nel crogiolo della democrazia di massa, era considerata gretta, ipocrita, volgare e stupida dalle élite filosofiche e artistiche. Il progresso aveva il suo rovescio. Ne soffriva Leopardi e ci si concentrarono scrittori che avevano sotto gli occhi la Francia del trionfo borghese, Baudelaire e Flaubert. Sia l’uno che l’altro erano ossessionati dall’imperante “sottise” (l’ottusità, la parola con cui si aprono Les Fleurs du Mal) e la “betise” (la stupidità acculturata che Flaubert raccontò in Bouvard et Pécuchet).
Queste considerazioni sul passato non consolano, ma fanno pensare. Possono rivelare per esempio che insistere troppo sulla stupidità dei propri avversari politici assolve facilmente dai propri peccati. La nostra cultura di massa è una fabbrica di stupidità a pieno regime. E la nostra cultura di élite ha le sue specifiche stupidità, che non si osa mettere in ridicolo e che gli intellettuali, per prudente omertà, si guardano bene dall’illustrare pubblicamente.
Nell’esercizio pubblico della ragione critica, primo comandamento illuministico, gli intellettuali postmoderni sono molto più fiacchi e vili di quelli moderni, quando si tratta di toccare i propri colleghi. La belle arti, le università, le specializzazioni, le tecnologie nuove sono accolte con timida benevolenza evitando sgradevoli giudizi. E poi se i geni della nostra epoca vanno da Andy Warhol a Steve Jobs, tra genialità e furbizia le differenze spariscono.
La “peggio politica” al cui studio si dedica l’Espresso non è nata oggi. Se progredisce, è colpa del progresso, il quale non risparmia niente e nessuno. Coloro che oggi mettono sotto accusa internet e i social perché hanno portato incompetenza e cretineria al potere, soltanto ieri si entusiasmavano per la democratizzazione culturale che l’informatica regalava a tutti senza la noia e la fatica di dover leggere libri e di pensare a display spento. I modernizzatori di ieri si spaventano oggi perché le modernizzazioni li mettono inaspettatamente in minoranza.
Erano davvero così competenti e raffinati e ironici su se stessi i politici “di una volta”? Erano competenti di cristianesimo i democristiani? Erano competenti di comunismo i partiti comunisti? I sindaci di Roma che hanno preceduto la povera Raggi furono competenti e lungimiranti? Se così fosse stato, la Raggi non sarebbe stata votata. Che cultura era quella di Massimo D’Alema e Walter Veltroni? Esistono libri, se non sbaglio, esilaranti e penosi che raccoglievano le gaffes, gli errori linguistici, le nozioni e le citazioni sbagliate dei parlamentari di una volta. Sono contento che l’Espresso e la sinistra si rendano conto di certi frutti insapori o marci del progresso. Ma sono costretto a chiedermi se per caso non si stia sognando una tecnocrazia salvifica e autolegittimata. Fra populismi e tecnocrazie, nei regimi liberal-democratici i due rischi si alternano.