Ha ancora senso parlare di destra e sinistra?
Quel che resta (niente) di due categorie politiche dopo la globalizzazione. Appunti non congressuali
Chi c’è andato più vicino, finora, è stato Giuliano da Empoli. Che in un’intervista a Steve Bannon pubblicata sul Foglio il 1 ottobre scorso si è spinto fino a dire “il cleavage principale oggi è questo, apertura versus chiusura, e non cancella ma rende certo molto meno rilevante il vecchio schema destra/sinistra”.
In questo articolo si proverà dapprima ad argomentare i motivi per cui le attuali categorie politiche sono state spazzate via dagli eventi occorsi nel pianeta dell’ultimo quarto di secolo. In secondo luogo si argomenterà che il superamento delle stesse è ancor più marcato ed evidente nel caso italiano. Infine, con la cautela del caso, si proporrà al lettore qualche riflessione su quale linea di demarcazione possa in futuro sostituire quella esistente nella definizione delle offerte politiche del tempo in cui viviamo.
La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato di natura hobbesiano, la destra tende ad accettare il disordine e l’instabilità
Alle elezioni politiche del 2018 più del 70 per cento dei votanti ha premiato forze politiche che rifiutano la diarchia “destra sinistra”
La tesi del superamento della dualità “destra/sinistra” circola da tempo nel dibattito politico. Ma o è sussurrata (per paura di essere tacciati come bestemmiatori nel tempio) o è usata in chiave strumentale per auto proclamarsi diversi rispetto al quadro politico esistente (il “non siamo né di destra né di sinistra” è stato sventolato sia dalla Lega a inizio anni Novanta che dal M5s venti anni dopo, ma anche da Mario Monti nelle elezioni nel 2013).
Una seria riflessione sull’attualità delle categorie “destra” e “sinistra” da parte della classe politica non è, quindi, mai realmente stata fatta. Un po’ per la sacralità del tema, un po’ per istinto di sopravvivenza da parte di partiti (e del relativo personale politico) che su quella distinzione hanno costituito tratti indentitari e rassicuranti molto difficili da mettere in discussione. E un po’ per la vischiosità a prendere atto degli enormi mutamenti occorsi in questo “piccolo Pianeta” (cit. John Kennedy) da un quarto di secolo a questa parte.
Come noto ai più, le denominazioni “Destra” e Sinistra” nascono dalla disposizione casuale dei banchi in cui si sedettero conservatori e rivoluzionari alla riunione degli Stati Generali in Francia nel maggio 1789, durante la Rivoluzione Francese. I primi tendevano alla conservazione dello status-quo feudale; i secondi al sovvertimento di tale ordine. Da allora, per analogia, “destra” ha indicato una posizione politica tesa al mantenimento dello status quo sociale che accetta le disuguaglianze in esso insite, ponendo maggiore accento su libertà e sviluppo e “sinistra” una tensione verso una modifica di esso in direzione di una maggiore uguaglianza (Bobbio 1994). Al contrario di quello che si crede, tuttavia, la distinzione Bobbiana “diseguaglianza/uguaglianza”, sebbene prevalente, non è l’unico criterio adottato per definire “destra” e “sinistra”. Secondo Gianni Vattimo (1996) l’identità della sinistra consiste in una riduzione della violenza, intesa non solo come utilizzo di mezzi coercitivi ma persino come esaltazione della competizione e della concorrenza. Carlo Galli (2010) individua invece la distinzione nella modalità di risposta al disordine pre politico. La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato di natura hobbesiano per riportare al centro l’individuo, con le sue necessità, quale portatore di ordine nel caos. La destra, secondo Galli, tende invece ad accettare il disordine e l’instabilità connesso allo status quo pre politico e cercarne, invece, le opportunità.
Contrariamente a quanto si crede, dunque, la definizione di cosa sia “destra” e cosa sia “sinistra” è da qualche anno estremamente dibattuto nel pensiero politico e filosofico. In questa sede, a chi scrive non interessa contribuire a quel tipo di dibattito (non ne avrebbe in ogni caso le credenziali e le capacità). Interessa, piuttosto, domandarsi se queste categorie politiche siano ancora adatte a riassumere in modo accurato – e rispondente alla realtà – lo spettro delle posizioni politiche che agiscono sulla realtà stessa con l’aspirazione di modificarla.
Le categorie politiche, infatti, non sono esogene. Non sono state consegnate da Dio a Mosè sul Monte Sinai agli albori della civiltà, e destinate a durare in eterno. Esse sono, invero, lo specchio del tempo in cui viviamo. Nascono da esso e si nutrono di esso. E in esso trovano – o non trovano più – ragion d’essere.
La distinzione tra destra e sinistra, come abbiamo visto, nasce in uno snodo cruciale della Storia. Quello in cui dal punto di vista politico debutta progressivamente su larga scala la democrazia rappresentativa strutturata sullo Stato nazionale, in sostituzione delle monarchie assolute o degli imperi; dal punto di vista sociale il regime feudale lascia il posto alla società articolata per classi sociali; dal punto di vista economico i secoli di sviluppo basato sull’agricoltura lasciano spazio alla rivoluzione industriale. Da quel momento sono passati quasi due secoli e mezzo. Che non sono certo sono stati omogenei, da tutti i punti i vista; ma che – pur attraverso temporanee deviazioni di breve periodo – hanno conservato i tratti di cui sopra: il primato indiscusso della democrazia rappresentativa, la centralità dello Stato nazionale, una riconoscibilità delle classi sociali e uno sviluppo economico saldamente basato sull’industria.
E’ opinione di chi scrive che tale assetto sia stato permanentemente archiviato da un Grande Shock che si è dispiegato gradualmente nell’ultimo quarto di secolo. Tale shock è comunemente identificato come “globalizzazione”, ma a ben vedere è persino qualcosa di più. Il dimensionamento globale delle dinamiche economiche è sicuramente l’aspetto più rilevante: dall’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso, infatti, la dimensione dei mercati - dei capitali, dei beni e servizi e financo del lavoro (con l’esplodere senza precedenti delle dinamiche migratorie) è diventata pienamente globale. Si argomenta spesso che questa non è stata la prima ondata di globalizzazione che il mondo abbia vissuto: a cavallo tra il XIX e il XX secolo, come noto, vi è stata una similare espansione globale dei commerci. Quella globalizzazione, che ebbe un brusco stop con lo scoppio di ben due guerre mondiali e la conseguente divisione del mondo in blocchi, fu tuttavia caratterizzata da una sostanziale asimmetria: poche grandi potenze sfruttavano - traendo beneficio dalle innovazioni tecnologiche nel settore dei trasporti - i flussi commerciali da e per i propri possedimenti coloniali, che non avevano autonomia soggettività di sviluppo e si limitavano ad essere fornitori di input e, in molti casi, mercati di sbocco degli output. La globalizzazione di un secolo dopo, invece, ha un assetto molto più paritario: i paesi emergenti o ex-emergenti (Cina, India, Brasile, Turchia, Sudafrica) non sono affatto possedimenti coloniali sotto dittatura economica (e politica) dei paesi occidentali. Anzi, gli effetti di spiazzamento di lavoratori e imprese in Europa e Stati Uniti sono determinati proprio dal carattere pienamente paritario di questa globalizzazione, in cui sono i paesi sviluppati a essere mercati di sbocco dei paesi emergenti e in cui l’affermarsi delle catene globali del valore rompe - questo sì per la prima volta nella Storia - il carattere esclusivamente nazionale delle filiere produttive.
Il Grande Shock venticinquennale, quindi, è soprattutto basato sulla globalizzazione (e sulla sua prima crisi, quella del 2008-2009) ma anche su altri sconvolgimenti che mutano radicalmente l’assetto di lunghissimo periodo inaugurato con la Rivoluzione Francese e che sopra abbiamo descritto. Il primo – e di gran lunga più importante – tra questi è la Rivoluzione Digitale e l’avvento del web. Nonostante il dibattito prosegua da vent’anni, è forse ancora troppo presto per valutare scientificamente in chiave storico-economica se la Internet Revolution sia configurabile come un vero e proprio superamento della Rivoluzione Industriale (chi scrive è assolutamente convinto di sì, non solo perché catalizza in maniera decisiva il settore terziario ma anche e soprattutto perché modifica radicalmente la manifattura e tutto ciò che le gira intorno). Ma è innegabile che essa abbia radicalmente e definitivamente sconvolto le dimensioni dell’informazione, della comunicazione politica, della formazione del consenso. Il venir meno di ogni filtro, l’orizzontalizzazione completa dei circuiti di informazione, l’azzeramento dei tempi della comunicazione (rispetto al rallentamento dei tempi della formazione della decisione politica) ha radicalmente modificato il rapporto tra rappresentanti e rappresentati e ha inciso pesantemente sul funzionamento della democrazia rappresentativa. Sia l’elezione a presidente Usa di un candidato estraneo ai tradizionali canali di selezione dei due partiti, sia il referendum sulla Brexit hanno sancito l’affermarsi della disintermediazione politica nei due paesi anglosassoni campioni della teoria e della pratica della democrazia rappresentativa. Tale tendenza poi è avvalorata da diverse altre esperienze (Russia, Turchia, Polonia, Ungheria) in cui si assiste a torsione dei regimi democratici verso forme di rappresentanza politica che sempre con maggiore frequenza saltano il ruolo dei corpi intermedi e delle tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa per avocare un diretto legame tra popolo e leader. Fino ad arrivare alle posizioni esplicite del primo partito italiano, che parlano di superamento del Parlamento e di sperimentazione di forme di democrazia diretta basate, guarda caso, proprio sulle nuove tecnologie messe a disposizione dalla rivoluzione digitale. E, infine, gli ultimi due tratti caratteristici dell’èra post 1789 (riconoscibilità delle classi sociali e sviluppo economico basato sull’industria, poi divenuta produzione di massa nel corso del Novecento) sono da tempo stati archiviati. Non certo perché si sia raggiunto un superamento delle divisioni sociali, ma - molto più banalmente - perché esse corrono lungo linee di demarcazione completamente diverse da quelle di un tempo. Il tradizionale criterio di possesso dei mezzi di produzione appare fortemente indebolito a vantaggio di altri criteri: non solo produttori versus rentier, ma anche e soprattutto tra possessori di opportunità (o capabilities, per dirla con Amartya Sen) e coloro che invece ne sono privi, magari perché spiazzati dal nuovo assetto globale.
Ciascuno dei tratti caratterizzanti del mondo in cui nacquero e si svilupparono le categorie politiche “destra” e “sinistra” (democrazia rappresentativa, Stato nazionale, Rivoluzione industriale e riconoscibilità delle classi sociali sulla base del possesso dei mezzi di produzione) è stato profondamente modificato – o addirittura spazzato via – da un Grande Shock dispiegatosi nel mondo dalla caduta del Muro di Berlino (1989) fino al riassorbimento della prima grande crisi della globalizzazione (2013-2014). Ce n’è abbastanza, dunque, per quantomeno chiedersi con cognizione di causa se quelle categorie siano ancora attuali per descrivere le posizioni politiche che, nascendo dalla realtà, mirano a modificarla.
Nel caso italiano vi sono poi alcune specificità storico-politiche che supportano ancor di più la tesi della sopravvenuta irrilevanza delle categorie politiche per come le conosciamo. La maggior parte dei politologi concorda che una “destra” vera e propria, analoga a quella presente e spesso prevalente nei paesi occidentali, non sia in fondo mai esistita nella Prima Repubblica, quantomeno nelle dimensioni rilevanti (il Partito liberale italiano, per molti osservatori rientrante in tale categoria, non ha mai raggiunto vette di consenso significative). Né tale può essere considerato il Movimento sociale italiano, essendosi sempre esplicitamente (dapprima) e implicitamente (poi) richiamato all’esperienza della dittatura fascista o della Repubblica di Salò. Ben nota e analizzata è poi l’anomalia sul fronte opposto: la presenza del più grande partito comunista del mondo occidentale, che almeno fino a metà Anni Settanta si richiamava esplicitamente alla dittatura sovietica, ha compresso e snaturato il dispiegarsi di una vera forza socialdemocratica, le cui funzioni erano svolte dalla sinistra Dc e dal Partito Socialista (e, con un consenso molto minore, dal Psdi). La conventio ad excludendum ha poi fatto il resto: anche quando il Pci si è esplicitamente distaccato dai richiami rivoluzionari e ha cominciato ad approssimare una “sinistra” legittimata nel gioco democratico, l’assetto geopolitico deciso alla fine della Seconda guerra mondiale ne ha impedito l’accesso al governo (Aldo Moro ci ha rimesso la vita su questo) e ha determinato in ultima analisi l’impossibilità pratica di costituire una democrazia dell’alternanza nel primo mezzo secolo di storia repubblicana.
Il primato della democrazia rappresentativa è stato messo alla prova dal Grande choc chiamato “globalizzazione”
Il caso italiano e le specificità storico-politiche che supportano ancor di più che altrove la tesi della irrilevanza di destra e sinistra
Il crollo del Muro di Berlino e l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica non ha, contrariamente a quanto si pensa, determinato la definizione di un quadro competitivo tra (centro)destra e (centro)sinistra. La linea di demarcazione tra le offerte politiche era semplicemente tra “pro Berlusconiani” e “anti Berlusconiani”. E tra i primi, se escludiamo il generoso e subito abortito tentativo di alcuni intellettuali quali Antonio Martino e Giuliano Urbani nei primi mesi del 1994., non vi è mai stato nulla neanche l’ombra di una destra liberale. Così come nella “gioiosa macchina da guerra” occhettiana, o nell’Ulivo del 1996 e 2006, non vi erano i tratti di una moderna socialdemocrazia ma piuttosto il tentativo - neanche tanto mascherato - di sommare i tratti culturali e il personale politico della cultura comunista e di quella della sinistra democristiana. E così, proprio mentre nel mondo si dispiegava il Grande Shock, l’Italia ha impiegato un quarto di secolo a dividersi tra tifosi e avversari del Cavaliere e dei suoi tratti caratteriali, a provare inutilmente a trovare stabilità nell’assetto elettorale e istituzionale, e a cercare di traghettare quanto più ceto politico possibile dalla Prima ad ancor più fumosa Terza Repubblica. Questa – con la rilevantissima eccezione dell’ingresso nell’euro – è stata la cosiddetta Seconda Repubblica, poco altro. E non dovrebbe stupire che proprio in questo lasso di tempo l’Italia abbia riportato i peggiori risultati economici della sua storia.
Per quanto di nostro interesse in questa sede, possiamo solo rilevare che i 25 anni di “Seconda Repubblica” hanno ulteriormente slabbrato nell’elettorato il senso di appartenenza alle categorie politiche “destra” e “sinistra”. Lo dimostra il fatto che alle elezioni politiche del 2018 gli unici due partiti politici che facevano espressamente e continuamente riferimento a tali categorie per definire la propria identità hanno riportato un consenso elettorale minimo (3,4% Liberi e Uguali e 4,3% Fratelli d’Italia). Il resto, si era già abbondantemente mischiato. Già dal 2013, con le segreterie dei due quarantenni Renzi e Salvini , Pd e Lega (che il 4 marzo si sono divisi in modo pressoché paritario un consenso del 36%) avevano incluso nella propria carta d’identità tratti culturali tradizionalmente appartenenti a categorie politiche opposte a quelle in cui teoricamente si collocavano: il Pd con l’enfasi su riduzione della pressione fiscale e liberalizzazione del mercato del lavoro e del capitale, e la Lega con l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento della spesa pubblica e dell’intervento statale in economia.
La tesi di chi scrive è, dunque, che le categorie che hanno contrassegnato lo spazio dell’offerta politica dalla Rivoluzione Francese ad oggi (per come sono state tradizionalmente intesi) non siano più attuali a causa dei profondissimi sconvolgimenti avvenuti a cavallo del Millennio; tale usura è ancor più valida in Italia, dove non solo l’intera vita repubblicana ha visto una declinazione incompleta e strabica di “destra” e “sinistra”, ma dove forse prima che altrove è iniziata la definizione di un’offerta politica che superasse le tradizionali cristallizzazioni. Alle elezioni politiche del 2018 più del 70% dei votanti ha premiato forze politiche che o rifiutavano a priori la diarchia “destra/sinistra” (M5s) o l’avevano da tempo nei fatti superata nelle proprie policies (Pd e Lega).
La definizione delle nuove categorie politiche non è una questione nominalistica. Non si fa chiarezza se a “destra e sinistra” si sostituisce , per dire una sciocchezza, “alto e basso” senza specificare che cosa realmente significhino. Così come, a opinione di chi scrive, non è pienamente fattibile limitarsi ad un’operazione di re-branding cambiando il significato dei termini “destra” e “sinistra”ma mantenendoli in vita: un brand universale di 250 anni di età, semplicemente, non muta significato a comando.
E allora che fare? Siamo in molti a essere convinti che la nuova linea di demarcazione tra offerte politiche passi attraverso una faglia, certamente ancora in divenire, ma i cui tratti cominciano ad essere piuttosto chiari. Da una parte chi è convinto che la realizzazione dell’individuo abbia un carattere sostanzialmente dinamico: non può che passare attraverso una continua evoluzione dei propri comportamenti (dettata dalla necessità di adattamento ad un mondo in continuo movimento), l’ampliamento delle opportunità e la naturale tensione verso il coglierle, la dimensione sovranazionale (su cui strutturare le istituzioni della democrazia rappresentativa), il multilateralismo e la tutela dei diritti civili e della libertà economica. Per dirla con Giovanni Orsina, questa offerta politica mira a limitare il “narcisismo” dell’elettore tramite la sua piena inclusione nella società globalizzata e nelle sue dinamiche.
Dalla parte opposta vi è chi invece predilige una dimensione più statica e non-limitante rispetto ai desideri assoluti dell’individuo, indipendentemente dal contesto. Le parole d’ordine sono protezione dai cambiamenti (reali o percepiti), dimensione nazionale o sub-nazionale della rappresentanza, disintermediazione politica con legame diretto tra leader e popolo, richiamo a valori tradizionali. L’ampliamento delle opportunità è visto come una minaccia rispetto alla ricerca delle sicurezze del mondo pre-globale, e i limiti all’azione politica non sono predeterminati dalle condizioni di contesto ma unicamente dalla stessa volontà “narcisista” dell’elettore.
E’ questa la diade (o la bozza di essa) delle future categorie politiche? La verità è che nessuno può saperlo, per due motivi: primo, nessuno può dire se il Grande Shock (1989-2014) sia realmente finito e in secondo luogo il percorso di aggiustamento potrebbe essere più lungo di quanto già non sia stato. In fondo, come si è cercato di argomentare, negli ultimi venticinque anni non abbiamo assistito al crollo di questo o quel partito politico, ma di pilastri sociali, politici ed economici che perduravano da secoli.
In una fase quindi ancora necessariamente molto incerta, lapalissianamente, non vi sono certezze a cui aggrapparsi. Non vi sono porti sicuri nei quali tornare, non vi sono più parole d’ordine rassicuranti che forniscano l’illusoria speranza che in fondo tutto quello che sta succedendo al mondo è solo una nottata che deve passare. Esiste solo la necessità di guardare al mondo per quello che è diventato e definire prospettive nuove volte a realizzare la missione millenaria della politica: il governo efficace della cosa pubblica al fine di migliorare le condizioni di vita presenti e future delle generazioni che vivono questo tempo. E’ questo, e non meno che questo, il compito della generazione che è diventata adulta in questo secolo.
Luigi Marattin è capogruppo Pd in commissione Bilancio della Camera. Ex consigliere economico di Palazzo Chigi