Il vicepremier Matteo Salvini in un discorso a Bormio (Foto LaPresse)

Perché a Salvini conviene che l'immigrazione resti un problema

David Allegranti

Senza modifica del Regolamento di Dublino si può continuare a speculare politicamente su un’emergenza contenibile

Roma. La vicenda dei quarantanove migranti a bordo delle navi Sea Watch e Sea Eye sta mettendo in evidenza le ipocrisie di Lega e Cinque stelle, che si lamentano per la cattiva gestione delle politiche migratorie dell’Unione europea senza però aver fatto niente per migliorarle, anzi. “Non è scritto nel contratto”, oppure “E’ scritto nel contratto”, sono le frasi paravento con cui i membri della maggioranza e del governo Lega-Cinque stelle si difendono per chiudere ogni discussione. E allora vediamo cosa c’è scritto nel contratto nella sezione dedicata all’immigrazione: “È necessario il superamento del Regolamento di Dublino.

 

Il rispetto del principio di equa ripartizione delle responsabilità sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Ue deve essere garantito attraverso il ricollocamento obbligatorio e automatico dei richiedenti asilo tra gli stati membri dell’Ue, in base a parametri oggettivi e quantificabili e con il reindirizzo delle domande di asilo verso altri paesi”. Ora, nel novembre 2017 il Parlamento europeo ha espresso la sua posizione sulla riforma del regolamento di Dublino – risalente al 2013 – sul diritto d’asilo e la novità più importante riguardava proprio l’abolizione del principio del paese di primo ingresso. La Lega s’è astenuta e il M5s ha votato contro. Quindi, viene il dubbio che quella della maggioranza Lega-Cinque stelle sia solo una posizione di comodo per poter continuare a speculare politicamente. La conferma ce la dà Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.

 

“Sono anni – dice Schiavone al Foglio – che cerchiamo di spiegare perché dietro alle vicende che squassano l’Europa c’è essenzialmente il Regolamento di Dublino. Tutti parlano di Schengen ma il problema è il Regolamento, che risponde a una logica finita da molti anni”. Il testo approvato dal Parlamento Europeo nel 2017, spiega Schiavone, voleva introdurre un profondo “cambio di paradigma”, a partire dall’eliminazione del criterio in base al quale la competenza all’esame della domanda di protezione si radica nel paese nel quale il richiedente ha fatto ingresso, sostituendo questo approccio, da tutti considerato fortemente inefficiente, con una nuova concezione in base alla quale il richiedente protezione va considerato un soggetto che fa ingresso nell’Unione considerata nel suo complesso.

 

Insomma, la competenza all’esame della domanda di protezione verrebbe definita sulla base di un sistema di quote che coinvolgono tutti i paesi dell’Unione, dando così più attenta attuazione al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità di cui all’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione. In più, come spiega l’Asgi, “assume rilievo giuridico nella individuazione del paese Ue competente a esaminare la domanda l’esistenza di ‘legami significativi’ (meaningful links) tra il richiedente e il paese nel quale lo stesso chiede di recarsi”, come precedenti soggiorni, corsi di studio e formazione effettuati in precedenza e la sponsorizzazione del richiedente stesso da parte di un ente accreditato. “Il sistema di allocazione secondo il principio delle quote-paese trova infatti applicazione solo in assenza di detti legami significativi”.

 

Tutto congelato

   

Dopo il voto del novembre 2017, avvenuto con una maggioranza trasversale, tutto però è rimasto congelato. Né il governo precedente, spiega Schiavone, né quello attuale hanno fatto niente per dare attuazione al “cambio di paradigma”: il risultato è la paralisi totale e probabilmente in questa legislatura europea, che scade in primavera, non ci sarà alcuna modifica al Regolamento di Dublino. “Le responsabilità sono anche precedenti, ma a maggior ragione con questo governo l’Italia non ha mai detto una sola parola sul tema. E’ del tutto evidente: si vuole che il problema rimanga aperto, in modo da poterlo strumentalizzare; se fosse risolto, verrebbe meno l’impianto sovranista. Perché la ripartizione delle quote anche in prospettiva dovrebbe alleggerire il nostro paese. Sarebbe un approccio diverso, perché varrebbe un principio di responsabilità e di obbligo per tutti. Ma ciò che fa bene al nostro paese, fa male all’ideologia”, dice Schiavone. “Dal novembre 2017 a oggi non esiste un documento italiano che produca un avanzamento su questo tema”.

 

La proposta originaria

 

La proposta originaria della Commissione europea – sulla quale il Parlamento ha fatto le sue modifiche – introduceva un meccanismo di assegnazione correttivo in base al quale, nel caso in cui uno stato membro si trovi ad affrontare un afflusso sproporzionato di migranti che superi il 150 per cento della quota di riferimento, tutti i nuovi richiedenti protezione internazionale, dopo una verifica dell’ammissibilità della domanda presentata, dovrebbero essere ricollocati in altri stati membri fino a quando il numero di domande non sia ridisceso al di sotto di tale quota. Una quota molto alta in effetti, osserva Schiavone, “ma anche questa avrebbe comunque prodotto effetti importanti.

 

I paesi con un tasso di presenza di migranti molto basso sono quelli dell’est, il blocco di Visegrad. Non hanno praticamente nessuno. Così sarebbero stati costretti a prendere una quota di persone. Con la proposta del Parlamento la quota sarebbe stata ancora più elevata ed è per questo che Orbán si rifiuta e dice che su queste materie le decisioni vengono prese dalle singole nazioni. Salvini in questo gli va dietro e si trova, insieme a Orbán, a fare gli interessi contrari dell’Italia”. Ma l’importante, per Salvini e gli altri sovranisti, è avere migranti per strada e continuare così a lamentarsene, come si è capito dallo sgombero del centro Baobab a Roma nel novembre scorso, o come dimostra il decreto sulla sicurezza, grazie al quale c’è il rischio che aumentino gli immigrati irregolari.

 

Aumenteranno gli irregolari

  

Come ha spiegato Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, in un articolo sul Foglio del novembre 2018 a firma Lorenzo Borga, “entro il 2020 in Italia avremo 60 mila nuovi irregolari” in più rispetto allo scenario pre decreto, per via del mancato rinnovo delle vecchie concessioni di protezione umanitaria e dei mancati rilasci ai nuovi richiedenti, al netto dei rimpatri previsti. Si tratta di una previsione estrema, perché basata sull’ipotesi che gran parte dei richiedenti non otterranno più la protezione, ma realistica. Basti pensare che negli ultimi mesi – a decreto non ancora approvato – le concessioni di protezione umanitaria si sono ridotte per più della metà (dati di ottobre 2018)”.

 

Lo schema è dunque chiaro, come indicato da Schiavone: c’è un problema, lo si denuncia e ci si costruisce una campagna elettorale stando all’opposizione. Una volta al governo, anziché risolverlo, si mantiene intatto per poter continuare a speculare politicamente.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.