Analisi della mozione Zingaretti
Le parole chiave sono “unità” e “discontinuità”, ma i contenuti?
La questione potrebbe dirsi in una battuta: a far danni si guadagna. Il consenso del governo gialloverde non risulta, almeno per ora, indebolito da una manovra che pure è strategicamente recessiva, perché non inverte nessuno dei fattori del declino italiano; maldestramente elettorale, perché non accontenta tutti, anzi penalizza una parte del ceto medio e apre nuove divisioni nel paese; politicamente impegnativa, perché ipoteca con l’indebitamento e con le clausole di salvaguardia l’agibilità dei governi che verranno. Il fenomeno lo ha spiegato Claudio Cerasa nel suo editoriale di sabato 29 dicembre: dopo anni di irrilevanza della politica rispetto alle dinamiche dei mercati, l’agenda Tafazzi, così come lui definisce la legge di Bilancio gialloverde, riassegna all’azione di governo un protagonismo capace di condizionare il ciclo economico, ancorché in negativo. E di muovere la storia d’Europa, sia pure a strattoni e all’indietro, mentre getta fumo negli occhi.
È per questo che a far danni si guadagna. Perché, a modo suo, la manovra del popolo è espressione di un vitalismo distruttivo e controproducente che tuttavia, per paradosso, restituisce alla politica un ruolo attivo. Cosa fa, invece, l’alternativa al populismo? Quali proposte, quale idea dell’Italia hanno i partiti che pure si sono prodotti in vibranti proteste contro il blitz parlamentare di fine anno? A questa domanda non è dato rispondere oggi in maniera chiara. Non sappiamo per esempio che cosa i leader dei partiti d’opposizione avrebbero contrapposto, nelle condizioni date, al reddito di cittadinanza, al superamento della Legge Fornero, alla Flat Tax per le partite Iva. Non sappiamo, ancora, se il braccio di ferro ingaggiato con l’Europa dal duo Salvini-Di Maio per strappare qualche decimale nel rapporto tra deficit e pil fosse da bocciare a prescindere, oppure avrebbe dovuto semplicemente orientarsi sugli investimenti, piuttosto che sulla spesa corrente. E nel primo caso, non sappiamo su quali target i liberali e i riformisti li avrebbero indirizzati.
Può il leader di una forza europeista dedicare poche parole all’alleanza atlantista e considerare la Brexit una prova di democrazia?
Prendete il caso di Nicola Zingaretti, da sei mesi candidato alla segreteria del Pd e ormai alla vigilia del congresso. Nelle sue interviste concesse ai giornali, alle tv, alle radio e ai siti online, si trovano con una ripetitività imbarazzante parole e frasi come “unità”, “discontinuità”, “partecipazione”, “uguaglianza”, “voltare pagina”, “stare tra la gente”. A voler approfondire, bisogna allora leggere la mozione congressuale pubblicata a dicembre sul suo sito e intitolata “È tempo di scegliere. Prima le persone”. E scoprire purtroppo che mai titolazione fu così depistante. Perché tutto fa Zingaretti, tranne che scegliere. Lo si desume da alcune parole inspiegabilmente mancanti nel suo argomentare, la prima delle quali è “debito”. Mai viene citata, nelle 44 pagine della mozione, la circostanza che il paese di cui si parla ha un passivo consolidato pari al 130 per cento del prodotto interno lordo.
Questa macroscopica omissione non solo sottrae il governatore del Lazio dal suggerire una terapia per rimettere in ordine i conti dell’azienda Italia, ma gli consente di promuovere un interventismo pubblico che sembra disporre di risorse illimitate e che spazia dalla lotta alla povertà e per l’eguaglianza a un nuovo modello economico di sviluppo sostenibile, da un imponente piano di infrastrutture al rilancio del Mezzogiorno, fino a un programma per la formazione e la ricerca. Il tutto naturalmente finanziato con fondi pubblici, per smentire “l’idea che il mercato ha sempre ragione”.
Zingaretti non spiega come lui regolerebbe i conti con l’Europa, ancorché attribuisce alle “politiche ordoliberiste” l’aumento delle diseguaglianze e i fattori di disgregazione all’interno dell’Unione. Ma è lecito presumere che qualche problema lo avrebbe, se davvero pensasse, come sostiene, di finanziare la sua “proposta per l’Italia” con la lotta all’evasione fiscale – così come prima di lui avevano detto in campagna elettorale i Cinque stelle –, e con alcune sforbiciatine alla spesa pubblica, come il taglio dei sussidi “ambientalmente dannosi”, lo sfoltimento delle agevolazioni fiscali, la centralizzazione degli acquisti e, da ultimo, l’abbattimento dei costi per l’illuminazione e il riscaldamento degli edifici pubblici. Davvero poca roba, e generica, per foraggiare quello che Zingaretti tratteggia come un New Deal verde e solidale per il rilancio del paese.
In realtà le entrate come le uscite stanno nel disegno dell’aspirante segretario del Pd come variabili indipendenti l’una dall’altra. Lo dimostra l’annuncio di una riforma fiscale che destini “risorse importanti sui figli e i familiari a carico, introducendo un nuovo assegno familiare universale”, e dimezzi l’Ires alle imprese che riducano la forbice tra retribuzioni alte e basse e che rispettino precisi standard ambientali. Ma è vano capire dove Zingaretti pensi di trovare le fonti di finanziamento di una politica che fa della spesa corrente il suo architrave, e che snocciola per le donne come per i giovani, per l’industria come per il Mezzogiorno rimedi concepiti prevalentemente in forma di sussidi e incentivi, tutti di mano pubblica. E tutti in linea di continuità con le politiche distributive dei governi precedenti e di quello gialloverde.
L’opposizione alle forze populiste non sembra restituirci un’idea alternativa dell’Italia, sui temi economici e sui rapporti con l’Ue
È singolare, ma anche indicativo, il giudizio che Zingaretti dà della manovra di quest’ultimo, quando sostiene che “il problema più importante non è il suo carattere espansivo”, sostenendo indirettamente che espansiva la manovra lo sia, ma che in essa “non c’è traccia del modello di sviluppo di cui l’Italia ha bisogno”. In realtà, a ben guardare, la filosofia delle misure proposte dal candidato riformista non è dissimile da quella che ispira la politica economica del Movimento pentastellato. E Zingaretti sotto sotto pensa di tenerne conto, quando sostiene che è suo obiettivo riportare all’ovile “una parte considerevole del nostro elettorato deluso, che ha votato Cinque stelle”.
Di certo a quest’ultimo parla la cifra egualitaria del governatore laziale, così netta da oscurare del tutto il merito, seconda omissione della sua mozione congressuale. Come se il merito non spiegasse, all’incontrario, il declino italiano e insieme non fosse una leva per ripartire. Ciò consente a Zingaretti di continuare a non scegliere, di impegnarsi da una parte per “assunzioni regolari e per un ricambio generazionale continuo della pubblica amministrazione”, e dall’altra di imbarcare quelli che definisce con un’eloquente retorica “i precari storici”. Ma in cattedra l’omissione del merito diventa abiura del merito, quando il governatore denuncia, senza indicarli, gli “errori compiuti sulla legge 107 (Buona Scuola)”, a suo dire causa di una frattura che lui si propone di sanare, con una sottolineatura che intende mettere alle spalle per sempre e senza mezzi termini l’esperienza renziana.
Se il manifesto riformista di Morando e Ceccanti qualche mese fa auspicava una “piena ed effettiva responsabilizzazione dei dirigenti scolastici, l’introduzione di vere e proprie carriere degli insegnanti e una forte differenziazione dei loro salari in rapporto ai risultati raggiunti”, quello del governatore laziale si limita a promettere, tra tante generiche affermazioni di principio, l’aumento degli stipendi. Il che dimostra che a dispetto delle scissioni, il Pd che rimane continua a dividersi tra due modelli di sinistra sempre molto distanti tra loro.
Ma è la terza e ultima omissione della mozione di Zingaretti che desta le maggiori preoccupazioni. La parola mancante in questo caso è Nato, e l’amnesia atlantista è tanto più significativa quanto più, come lo stesso governatore riconosce, “il numero delle potenze globali continua ad aumentare, le istituzioni multilaterali sono sotto attacco e si rischia di tornare a relazioni tra singole nazioni fondate su mere logiche di potere”. L’analisi degli scenari geopolitici dell’aspirante segretario del Pd si ferma a queste tre righe, che confinano la tradizione della sinistra italiana in un arroccamento men che municipale.
In questo scenario Zingaretti trova rassicurazione in un’Europa integrata, anche a costo di procedere a due velocità, chiamando i paesi fondatori a fare la prima mossa verso un’unità politica, e mai più solo tecnocratica, e verso un bilancio con cui mettere in atto strategie anticicliche. E’ questa, a suo dire, la battaglia di un fronte progressista “in grado di unire tutte le varie espressioni libere, creative e spontanee della sinistra europea, da Tsipras a Podemos agli ecologisti”.
È singolare, tuttavia, che smentendo la sua diffidenza per le tecnocrazie, qualche passo più avanti lo stesso governatore assegni alla Banca centrale, che tutto è tranne che un’entità politica, il mandato “di perseguire non solo la stabilità dei prezzi ma anche la piena occupazione”. Ma è ancora più singolare che, volendo emulare il populismo nella corsa alla democrazia diretta, Zingaretti proponga di potenziare il referendum, portando ad esempio, non solo il “no” del 4 dicembre 2016 alla riforma costituzionale del governo Renzi, ma perfino la Brexit. Può il leader di una forza riformista ed europeista considerare la Brexit una buona prova di democrazia?
Di fronte a simili confusioni, figlie dei tempi, è di conforto che la mozione Zingaretti superi l’identificazione, sancita dall’articolo 3 dello statuto del Pd, tra il ruolo di segretario nazionale del partito e quello di candidato presidente del Consiglio. Del resto, a sbarrare la strada della premiership pensano i populisti doc, quelli già insediati a Palazzo. Con l’opposizione che si ritrovano, possono ancora guadagnare consensi, facendo danni al paese.