Gli errori del Pd che hanno convinto me, turborenziana, a stare con Zingaretti
Altro che popcorn, il nostro partito doveva impedire l'alleanza tra Lega e M5s
Perché mai una turborenziana come me dovrebbe sostenere Nicola Zingaretti? Sono forse impazzita? Direi di no, in fondo mi pare di essere una personcina piuttosto razionale e poco incline a colpi di testa. Ma il 4 marzo 2018 è successo qualcosa di dirompente. Uno spartiacque storico profondissimo, che avrebbe richiesto al partito che aveva governato sino a quel momento tutta un’altra postura. L’exploit dei partiti populisti, Cinque stelle e Lega, l’Italia spaccata a metà tra chi se la prendeva per il peggioramento delle condizioni economiche (voto ai 5 stelle al sud) e chi si scagliava contro gli immigrati (voto alla Lega al nord), l’avanzata di un proporzionalismo strisciante con pochi sbocchi per la governabilità. Di fronte a questa curva della storia, il Pd ha commesso secondo me due clamorosi errori.
Il primo è stato quello di esercitarsi in un tifo sfegatato per la saldatura delle due uniche forze che non avrebbero mai dovuto nemmeno sfiorarsi, la Lega lepenista di Salvini e la parte più a destra del Movimento 5 stelle. Di fronte a due pericolosi estremismi, magari si cerca di separarli, di disinnescarne e bilanciarne gli effetti e non di moltiplicarli. Entusiasmo a palla, condito da popcorn, risolini e affermazioni surreali (“i nostri elettori ci hanno mandato all’opposizione”, eh?), dalla convinzione cioè che un veloce fallimento dei gialloverdi avrebbe portato il paese allo sfascio e avrebbe quindi ricondotto milioni di elettori pentiti da noi che eravamo gli unici veramente capaci. E poi l’errore di rinviare il Congresso, di sterilizzare qualsiasi discussione o dibattito, in attesa di non si sa bene cosa.
Il Congresso, piaccia o non piaccia, è l’unico metodo veramente democratico, dentro a un partito grande e plurale come il Pd, per confrontarsi e proporre visioni alternative, per analizzare e capire, anche per contarsi e ripartire. Non ce ne sono tanti altri. Il Congresso alla fine è arrivato, sul filo di lana, ma esattamente un anno dopo lo shock elettorale del 4 marzo. Se questa è l’analisi, la scelta non poteva che cadere su Nicola Zingaretti. L’unico ad aver chiesto il Congresso subito, mentre in molti più o meno apertamente spingevano per il rinvio, il solo candidato estraneo alla gestione e agli insuccessi precedenti.
Ora, sarebbe stupido pensare che la débacle del Pd sia solo dovuta ai suoi dirigenti o al suo leader. I partiti progressisti hanno sofferto ovunque, soprattutto laddove hanno governato, e ricondurre la crisi della sinistra solo ai fatti di casa nostra sarebbe fuorviante. Probabilmente con un altro leader al posto di Renzi le cose sarebbero andate ancora peggio. Ma sono la reazione e i tempi della reazione a non essere stati adeguati. Di fronte a sconfitte colossali non si traccheggia, non si guarda indietro, non ci si aggrappa all’eravamo bravissimi ma non ci hanno capito, non si spera di vivacchiare o sopravvivere aspettando il cadavere degli altri sulla riva del fiume.
La mozione di Zingaretti, il governatore che ha addirittura vinto due volte, scommette su due cose. Costruire un partito inclusivo, largo e plurale. Una banalità? No, se lo si fa veramente. Un partito trasversale che superi le correnti, le cordate e i personalismi, dove non si premia solo la fedeltà ma anche la competenza, l’energia, la capacità di produrre soluzioni, il ricambio. Non un partito di reduci, non un partito che si sposta a sinistra perché spostarsi al centro non ha funzionato, non un partito zavorrato da ambizioni personali. Anche perché, se così non sarà, le possibilità per il Pd di tornare a giocare un qualche ruolo stanno a zero.
Ma la scommessa ancora più dirimente è quella sulle politiche. E cioè dimostrare che crescita e redistribuzione non sono scelte alternative. Più si investe, più si cresce, più si incentiva l’innovazione e la competitività più si può redistribuire e gettare qualche scialuppa di salvataggio a chi proprio non ce la fa. Il Pd e tutti noi non abbiamo compreso quella richiesta (urlata) di protezione sociale e di maggiore giustizia che poi è arrivata, come uno sberlone, nelle urne. Le democrazie che funzionano meglio sono quelle in cui il lavoro si crea (e non si cerca di dividere quello che c’è), in cui le imprese investono e innovano e sono aiutate a farlo, e in cui si può tenere in piedi un sistema di welfare e di servizi favorevole alla vita di tutti. Non c’è democrazia senza sviluppo, ma non c’è democrazia senza inclusione. La democrazia si slabbra se troppi rimangono fuori, se la rabbia supera la felicità. Altro che decrescita.
Nicola Zingaretti propone un’alternativa chiara e totale all’Italia di oggi. Un paese immobile, oscurantista, regredito nei diritti e nel livello di civiltà. In cui in fondo è figo buttare nella spazzatura vestiti e coperte di un clochard. In cui 49 disperati rimangono a mollo in mare da quasi un mese e sembra la cosa più normale del mondo. Un paese che non avremmo mai voluto vedere e che invece è qui davanti a noi. L’urgenza di cambiare pagina non va nemmeno spiegata.