mani bucate
La democrazia diretta e la delocalizzazione della politica
Dall’antiparlamentarismo all’oltreparlamentarismo. Come resistere
Quando ho voglia di indispettire un amico magistrato (ma non fino al punto di farmi incriminare) rispolvero un mio vecchio progetto fantagiuridico di riforma della procedura penale. Già oggi molti processi si celebrano sui media più che nelle aule di giustizia, gli dico, e tutto fa supporre che le cose andranno peggiorando. Forse non sarà domani, magari neppure dopodomani, ma verrà il giorno in cui constateremo che abbiamo perso la guerra, che è velleitario cercare di mettere la cavezza alla bestiaccia indocile dell’informazione giudiziaria o sperare di ricondurre all’ovile dei tribunali la pecorella smarrita del processo, che ha preso l’abitudine di pascolare un po’ dove gli capita. Quando quel giorno arriverà, sarà bene che ci trovi pronti con in mano un codice garantista per disciplinare il rito mediatico, che l’imputato potrà scegliere come oggi sceglie, se gli conviene, il rito abbreviato. Il processo penale si svolgerà direttamente in uno studio televisivo e nelle forme di uno show, ma in condizioni di perfetta parità tra le parti, con regole precise di acquisizione delle prove e di escussione delle testimonianze. Se vogliamo, sarebbe un’estensione dell’area di giurisdizione di format arbitrali come l’americano Judge Judy o il nostro Forum (magari meno soporifero), nonché un taglio drastico di quel nodo che Antoine Garapon, nel suo saggio sul rituale giudiziario, chiamava la “delocalizzazione della scena giudiziaria nei media”. Dico queste cose con la faccia serissima, vedo l’amico magistrato che s’irrigidisce, sbuffa, scalpita, ma dopo aver riso un poco a sue spese mi rabbuio e piombo nello sconforto anch’io.
Mi chiedo se un destino simile non penda sui luoghi della decisione politica, e me lo chiedo nei giorni in cui – tra la mortificazione delle Camere con la fiducia sul maxiemendamento e la battaglia casaleggiana per il referendum propositivo senza quorum – i gialloverdi stanno mostrando tutta la loro baldanza antiparlamentare. I verdi per accentrare il potere nelle mani dello sceriffo, i gialli per delegare le decisioni alla ditta di famiglia dietro il paravento della democrazia diretta. Le due forme di antiparlamentarismo hanno la loro storia, la loro galleria degli antenati, la loro logica interna e le loro contaminazioni reciproche. Ma al di là dei diversi gradi di consapevolezza dolosa degli attori politici, che vanno dall’analfabetismo colposo alla premeditazione squadrista, in questa brutta piega c’è anche – e c’è nelle cose, piaccia e meno – un elemento di reazione improvvisata a quella che potremmo chiamare, adattando la formula di Garapon, delocalizzazione della scena politica. Nel nuovo antiparlamentarismo risuona insomma una nota di “oltreparlamentarismo” che un mediologo potrebbe studiare più convenientemente di un politologo, magari nel solco di quel libro straordinario e chiaroveggente di trentacinque anni fa, “Oltre il senso del luogo” di Joshua Meyrowitz, dove si trovano ancora mille bandoli per sbrogliare il caos attuale: la perdita di significato dei luoghi fisici, l’apertura per via elettronica di tutte le scatolette di tonno, la confusione di contesti e registri un tempo rigidamente distinti. Spero di indispettire qualche amico politologo se dico che, mentre combattiamo nel breve termine per salvare il fortino assediato del parlamento, nel lungo e nel lunghissimo (quello in cui saremo tutti morti) dovremmo anche attrezzarci all’eventualità che tra quelle mura non resti più nulla da difendere. Ci rassegneremo a custodire una stalla gloriosa da cui sono scappati i buoi? Oppure, recuperando un po’ del vecchio spirito di frontiera, ci inventeremo qualche progetto fantapolitico per civilizzare la vasta wilderness in cui il nemico sembra muoversi tanto agilmente?