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Dalla legittima difesa al caso Rigopiano: Di Maio si arrende su tutto

Valerio Valentini

La linea di Salvini vince sempre, però il leader leghista non vuole rompere l'asse col M5s

Roma. Quando da Montecitorio è arrivato il messaggio inviato da Riccardo Molinari sulla chat dei ministri e dei sottosegretari (“Via libera dalla commissione giustizia sulla legittima difesa: tutto ok”), gli uomini di governo della Lega che stavano a Palazzo Chigi, mercoledì pomeriggio, si sono scambiati uno sguardo sardonico. “Visto? Ormai non c’è più bisogno neppure di alzare il telefono”. Il riferimento era allo scontro del giorno prima, quando due esponenti abruzzesi del M5s, il sottosegretario ai Beni culturali Gianluca Vacca e il senatore Gianluca Castaldi, avevano tentato il blitz sul risarcimento ai superstiti e alle vittime di Rigopiano.

 

Quando la notizia è arrivata al Viminale, Matteo Salvini s’è infuriato: “Ma come? Si credono furbi?”, è sbottato il vicepremier, desideroso d’intestarsi la paternità del provvedimento almeno quanto Luigi Di Maio, entrambi ansiosi di potere rivendicare, ciascuno per sé, quella misura in vista delle imminenti elezioni regionali del 10 febbraio. La fretta era tale, del resto, che alla fine i tecnici di Salvini avevano optato per l’opzione più rapida: recuperare il decreto scritto nel 2010 per risarcire i famigliari delle vittime della strage di Viareggio e ricopiarlo parola per parola, cambiando giusto lo stretto indispensabile, in un emendamento da inserire al volo nel decreto semplificazioni.

 

Insomma, “uno scippo intollerabile”. Ed è scattata la ritorsione: “I nostri non vanno”, ha sentenziato il capo, dando disposizioni perché i parlamentari leghisti coinvolti nella discussione del provvedimento disertassero la riunione di maggioranza. Sembrava il preludio di un incidente. “E invece sai quanto c’è voluto?”, hanno poi spiegato i colonnelli al segretario del Carroccio. “Quanto?”, ha chiesto lui. “Quaranta minuti, non di più”. Tanto è bastato perché, lo stato maggiore del M5s, optasse per la ritirata in buon ordine, sotto le indicazioni di Riccardo Fraccaro. L’indomani, neanche la fatica di paventare la rappresaglia, è servita.

 

“Visto? Ormai non c’è più bisogno neppure di alzare il telefono”, sogghignavano i leghisti. Dai Cinque stelle nessun emendamento al testo della legittima difesa, tanto caro a Salvini e al suo vice al Viminale, Nicola Molteni. Nemmeno sulla questione dei risarcimenti in sede civile a chi invade la proprietà privata altrui e subisce una eccessiva reazione da parte del potenziale derubato, che pure restava lì come possibile pietra d’inciampo, si è questionato alcunché. “E’ stato trovato l’accordo”, rispondeva Giulia Sarti, la presidente grillina della commissione Giustizia, a chi le chiedeva conto, con fare sospettoso, dell’eccessiva cedevolezza della sua pattuglia.

 

Ed era un modo per alludere a giochi più complessi, a ordini arrivati dall’alto. “La quadra si era già trovata al Senato, in prima lettura. Se qualcuno alla Camera aveva la malsana idea di fare imboscate, deve essersela tolta”, conferma Igor Iezzi, tra i fedelissimi di Salvini a Montecitorio sulle questioni che riguardano la giustizia. “Tutto liscio”, confermava allora Molinari. Gli ottanta emendamenti delle opposizioni, tutti respinti. “Così Salvini porta sempre tutto a casa”, sbuffavano intanto i grillini più riottosi, che invece un po’ di ostruzionismo, su una legge che reputano “pericolosa e potenzialmente incostituzionale”, lo avrebbero gradito eccome.

 

Ed è vero, certo, che il ministro dell’Interno gioisce: “Così incassiamo a stretto giro un altro provvedimento bandiera prima delle europee”, spiegano i leghisti. I quali già sanno che, quando si tratterà di riempire le piazze per il voto di maggio, potranno dire di avere ottenuto, come Carroccio, più vittorie in questi otto mesi che nei vent’anni precedenti. E tuttavia, al contempo, questa strana arrendevolezza del M5s innervosisce i vertici leghisti. Di Maio ha dato mandato ai suoi: “Evitiamo gli scontri”. E pare perfino che gli ambasciatori grillini, quei pochi che coi leghisti parlano con franchezza, si siano lasciati sfuggire una rassicurazione che aveva il tono della supplica: “Evitiamo scherzetti, fino alle europee. Approviamo tutto quello che possiamo, e poi ci contiamo”.

 

E così non sono servite le fughe in avanti della sottosegretaria leghista Gava sulle trivelle; neppure gli sberleffi di Salvini sull’Italia “che non può dire solo no” hanno sortito l’effetto sperato. Ogni volta che i verdi forzavano, nei giorni scorsi, i grillini arretravano senza troppe remore. E così la tentazione accarezzata da Salvini subito dopo le vacanza natalizie, quell’idea di far saltare tutto subito e provare a chiedere a Mattarella nuove elezioni prima delle europee, è stata di nuovo accantonata. “Anche perché, qual è la scusa per rompere?”, si chiedono i leghisti. L’autonomia? “Ma ci capirebbero solo in Veneto e forse in Lombardia. Vai a spiegare al resto del paese che ribalti tutto per l’autonomia”. I rifiuti? “Vedremo, ma non è un tema sentitissimo”. La Tav? “Su quella, al di là delle dichiarazioni di facciata, Di Maio e Toninelli ci rassicurano che si farà”.

 

E così, esibendo una riluttanza studiata, riparandosi dalle accuse sotto il manto di una ostentata insofferenza per questa coabitazione forzata col M5s, Salvini ha deciso che si andrà avanti. Sperando magari che rifiutarsi di mostrare i manifesti stampati da Rocco Casalino possa bastare a tenere a bada l’elettorato del nord. Come a dire che governo, certo, ma not in my name.

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