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La Lega e la giustizia, doppio binario

Maurizio Crippa

Storia di una ambiguità genetica. Il partito del cappio per gli altri e indulgente per sé. I danni che il giustizialismo ha inflitto allo stato di diritto

Milano. “La smettano con queste buffonate, la smettano!”. Giorgio Napolitano era presidente della Camera, con compostezza dovette porre termine all’indegna cagnara di Luca Leoni Orsenigo, della Lega nord, che agitava un cappio mentre il premier Giuliano Amato parlava. Era il 16 marzo 1993, Prima Repubblica, e il partito di Bossi poteva ancora fingersi nuovo contro Roma ladrona, e sventolare la sua concezione tribale del diritto. Ma sarebbe durata poco. A novembre 1993 la Lega entrava di diritto tra i ladroni, da una porta di servizio del processo Enimont. Iniziava la doppia morale. 

  

Il processo Enimont fu il tragico autodafé in cui la magistratura tirò il collo alla politica e, più colpevolmente, una parte della politica tirò il collo a se stessa e allo stato di diritto. La Lega trovò il suo battesimo del fuoco nel doppio ruolo di partito che saltellava ai bordi dello stagno che a forza di urla e cappi pretendeva di prosciugare. Il segretario organizzativo Alessandro Patelli e Umberto Bossi finirono condannati, nonostante il folcloristico tentativo di Bossi di restituire alla procura i 200 milioni di lire oggetto dell’inchiesta (almeno tentava di restituirli, lui). Fine della purezza, e inizio del rapporto ambiguo tra il partito oggi di Matteo Salvini e la giustizia. O meglio possiamo dire con il giustizialismo: nonostante abbia espresso anche un buon ministro liberale della Giustizia, Roberto Castelli, la concezione leghista dello stato di diritto è sempre rimasta assai grossolana, tagliata con la roncola.

  

Doppia morale. La Lega che aveva già visto il suo Senatùr rinviato a giudizio, nel 1994 si schierò (con Alleanza nazionale) contro il garantista decreto Biondi, chiamandolo “Salva ladri”. Qualche anno, e arrivò il pantano poco commendevole di CredieuroNord, che l’Umberto stesso sosteneva come banca amica, e di un tentativo di salvataggio che avrebbe poco da invidiare ad altri casi più recenti, e su cui il partito di Salvini ha sollevato ben orchestrate campagne di indignazione popolare. L’andamento slalomistico di una Lega di volta in volta forcaiola e intransigente, oppure accomodante o persino a tratti garantista vale una storia dentro la storia della Seconda Repubblica. Ma basterebbe il 2012. I giorni in cui Roberto Maroni annunciava in Aula il voto favorevole all’arresto del deputato di Forza Italia Nicola Cosentino, mentre Bossi (il tempo aveva riportato pace e affetto con Berlusconi) predicava il no in nome delle prerogative del Parlamento. Ma era già iniziata la resa dei conti interna, ad aprile a Bergamo andò in scena la “notte delle scope”, quella in cui Maroni (Matteo Salvini si teneva ancora sullo sfondo) con i suoi “barbari sognanti” regolò i conti in nome dell’onestà tradita con il Cerchio magico, divenuto con ogni evidenza ingestibile.

  

Il punto interessante di questa lunga storia non è ovviamente contabilizzare quante volte la Lega abbia usato un doppio registro persino pacchiano per togliersi dai guai. E’ più interessante cogliere quanto il Dna non garantista – e un’idea della giustizia come strumento politico e come fonte di legittimazione popolare – siano connaturati alla visione politica della Lega. Strettamente legati alla sua essenza di movimento popolano (poi populista) istintivamente antiparlamentare, o che per meglio dire ha sempre avuto qualche problema con Montesquieu e la separazione dei poteri. La Lega si è inizialmente autorappresentata come popolo innocente e derubato che insorge contro la politica corrotta (nonché popolo derubato dagli avidi finanzieri: l’antimercatismo leghista è di lunga durata). Poi, entrati nel giro, il mito dell’innocenza si è cristallizzato nella doppia morale e in una diversità antropologica più di grana grossa rispetto a quella della sinistra, ma di tessuto resistente. Poi il mito della purezza è ridiventato un’arma politica interna. La Lega è nata nella Prima Repubblica: alla formazione di quel clima di odio antipolitico, in cui le indagini diventavano già condanne e la politica non aveva più legittimità e autonomia il movimento allora padano ha contribuito quanto se non più di altri partiti. Il cappio di Leoni Orsenigo non è folclore, è la sintesi di una ideologia.

   

Poi, sciroppata la Seconda Repubblica cullandosi nella doppia morale, arriva Salvini. Uno che di giustizia ne sa meno di Leoni Orsenigo, ma che il corpus delle leggi e delle regole anche internazionali sfida nel nome dell’esecutivo eletto dal popolo (fake, del resto) e che ha pertanto un mandato che lo rende superiore alla legge. Eppure, nel suo programma elettorale per la giustizia la Lega aveva – a parte legittima difesa sicurezza eccetera – anche la separazione delle carriere e il giusto processo. Invece poi ha finito per accettare in toto il programma davighiano o dei Cinque stelle: non per errore, ma perché a Salvini il tema della giustizia non interessa. Ma la verginità per lui è durata anche meno di quella di Bossi nel 1993, la doppia morale è già stata rimessa sui binari: la faccenda dei 49 milioni a rate è già nella storia degli orrori italiani, la scappatoia per Bossi e figlio incastrando soltanto Belsito (si ritorna magicamente alla casella del segretario politico che poteva non sapere). E adesso, dopo aver rivendicato la superiorità della politica sulla magistratura in nome di un presunto mandato superiore, il processo non lo vuole più. Un’altra martellata in più allo stato di diritto. Che importa?

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"