Durigon, sottosegretario-bodyguard della quota cento (e di Salvini)
Leghista, sindacalista, oltranzista del “non processate” il ministro dell’Interno. Di Latina, ma con nome e cuore da nordest
Roma. Uno dice che la questione “autorizzazione a procedere” nei confronti del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini può mettere a rischio il governo? E lui, il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, dice che “il governo non traballa”. Qualcuno attacca Salvini per il problema a monte, la nave Diciotti, insistendo che il ministro dell’Interno deve essere processato? E lui, Durigon, dice che queste cose lo fanno arrabbiare. Qualcun altro vuole salvare la legge Fornero, nel momento di lancio della “quota cento”? E Durigon non sta zitto, ché va sostenendo già da molto tempo (anche su questo giornale) che preservare la legge Fornero sarebbe stata una follia. E dunque la “quota cento”, al pari dell’operato di Matteo Salvini nel suo complesso, lui li difende – letteralmente – anima e corpo, tantopiù che, oltre alla convinzione, il sottosegretario leghista al ministero del Lavoro possiede un physique du role di sicura imponenza, perfetto per farsi paladino e bodyguard e quasi quasi sceriffo (se lo vedono i fratelli Coen lo scritturano per il prossimo film di racconti sul West).
Non solo: con quel cognome da Nordest inoltrato, Durigon pare sceso direttamente dalle valli venete per assistere l’impresa del governo gialloverde, e invece no: il sottosegretario non soltanto è di Latina, ma preferisce essere chiamato “Dùrigon”, con l’accento sulla “u”, a sottolineare che la discesa dal Veneto, se c’è stata, è stato affare da albero genealogico, un paio di generazioni addietro. Fatto sta che nessuno, ormai, che si tratti di un talk show o di un’intervista cartacea, può impunemente attaccare Salvini o lo smantellamento della Fornero senza che Durigon-Dùrigon non insorga, pur con pacatezza inversamente proporzionale alla minacciosità del sembiante, pacatamente minaccioso anche sul piano locale, oltreché nazionale.
Ogni volta che, infatti, si parla di “Opa di Salvini su Roma”, in prospettiva anti-Raggi, sempre lì si va a parare: all’opera di piantonamento indiretto del territorio ad opera di Claudio Durigon di Latina, una vita da sindacalista dell’Ugl nella zona pontina e nel frusinate (la prima festa della nuova Lega, edizione regionale laziale, infatti, nel settembre scorso, è stata organizzata proprio a Latina). E a quel punto però Durigon, da molto dietro le quinte, ma non per questo senza ambizione (anzi) fin dai tempi in cui era segretario Ugl di Latina, era arrivato al ministero al cui vertice sedeva l’altro vicepremier (a Cinque Stelle) Luigi Di Maio.
E dal ministero – paladino e bodyguard della nuova compagine – già pareva a suo agio, Durigon, nel ruolo di uomo-argine: qualcuno, nei giorni duri delle discussioni sul bilancio, diceva che il ministro dell’Economia Giovanni Tria rischiava di non restare al Mef? Ecco che lui, di buon mattino, dagli schermi de La7, rassicurava con l’aria del “no pasaran”: no che non rischia, Tria, e le nostre, “più che tensioni”, sono “dialettica”. E così martedì scorso, all’uscita dalla conferenza stampa della Lega a Montecitorio, intervistato dal Messaggero, Durigon si schierava metaforicamente a testuggine, pur essendo da solo e senza esercito: “La magistratura non può giudicare un esecutivo, precedente pericoloso…è una battaglia di civiltà, dobbiamo essere compatti…che facciamo quando approveremo la riforma della giustizia?”. Poi tornava a parlare della materia di cui, per lui, sono fatti i sogni, la quota cento, appunto: “Con questo provvedimento diamo la possibilità, nel triennio 2019-2021, a un milione di persone, di cui 350 mila donne, di poter andare in pensione con 62 anni e 38 di contributi, 5 anni prima di quanto avveniva in precedenza. E non si tratta di un provvedimento assistenzialistico ma piuttosto di un intervento che punta a un ricambio generazionale nel mercato del lavoro”. E nelle foto del momento che doveva essere trionfale appariva preoccupato, Durigon, come chi sa che prima o poi, alla fortezza, verrà a bussare il nemico.