Eravamo un'élite da bar
Come è potuta accadere la presa di potere di un ceto di incapaci che spaccia il suo dominio per bene del popolo
Come è possibile essere governati da Salvini, Di Maio, Bonafede, Toninelli e compagnia gialloverde? Come è possibile che gente incapace di esercitare una professione normale governi un paese di sessanta milioni di abitanti? Come è possibile che il goliardo terzomondista Di Battista sia trattato da gran parte della stampa come un leader autorevole? Se si ha un po’ di memoria storica e si confrontano i politici di oggi con quelli, diciamo, di quarant’anni fa, non si può non provare una sensazione di decadenza fatale, anzi di vertiginosa discesa verso il baratro. Un Moro o un Berlinguer erano modelli di governanti dotati di un’autorità indiscutibile e anche, in un certo senso, di sacralità. E questa, a sua volta, discendeva dalla serietà assoluta della loro vita privata e pubblica. Erano politici rispettati perché rispettavano i cittadini e gli elettori. Nessuno di loro, persino ai tempi duri della lotta armata, avrebbe dato vita all’orrida pantomima di Salvini e Bonafede all’arrivo di Cesare Battisti.
La risposta più plausibile alle domande iniziali è che è successo qualcosa, negli ultimi decenni, di cui solo ora iniziamo ad avvertire le conseguenze irreversibili. Non tanto e non solo il declino del ceto politico, che ovviamente non si limita all’Italia, ma qualcos’altro. Chiamiamo questo qualcosa la democratizzazione al tempo radicale e virtuale dell’opinione pubblica. Tanto per capirci, il passaggio dal modello “sezione di partito” a quello “bar sotto casa”. Nel modello sezione di partito, cittadini informati, se non altro dalla stampa di parte o da quella considerata autorevole, si riunivano per condividere, e talvolta modificare, le scelte politiche di una dirigenza di partito. Nel modello bar sotto casa, chiunque ha la pretesa di esprimersi sulle questioni pubbliche per il solo fatto di esistere come utente di internet e dei social media, che oggi rappresentano i bar sotto casa globali e virtuali. Se ci si pensa, Salvini, Di Maio, Fico, Di Battista, Bonafede, Giorgetti, Garavaglia, ecc. corrispondono, in quanto tipi sociali, alle maschere abituali del bar sotto casa (o del bar sport): l’ultrà che vuole legge e ordine, l’impiegato modello, il brav’uomo della porta accanto, il fricchettone, il leguleio, il commercialista, il ragiunatt…
In altri termini, questi politici sono del tutto permutabili, al di là della voglia e della capacità di emergere, con i loro elettori, sono i loro elettori. Più ancora della Lega, partito della piccola azienda e della parrocchia, il M5s ha portato l’uomo della strada qualsiasi, il frequentatore sconosciuto del bar sotto casa, a rappresentare se stesso in Parlamento. Caratteristici delle conversazioni o discussioni da bar sono il complottismo, l’antisemitismo (i protocolli dei Savi di Sion rispolverati da Lannutti!), i luoghi comuni paranoici (l’invasione degli immigrati, i “taxi del mare”), il giustizialismo, l’ossessione punitiva, la polemica sui privilegi delle élite e così via – che periodicamente grillini e leghisti rispolverano come se ne andasse della loro identità. E tipica del frequentatore del bar, locale o globale, reale o virtuale, è la pretesa di essere competenti su qualsiasi questione di pubblico interesse. Conferma paradossale e peggiorativa della profezia di Lenin, secondo cui anche una cuoca avrebbe potuto dirigere uno stato. Al governo non ci sono cuoche, ahimè, ma ci sono Di Maio, Toninelli e Giulia Grillo.
Tutto ciò potrebbe sembrare folklore, se non celasse un aspetto sinistro e potenzialmente dispotico. Per apprezzarlo, bisogna tornare alle fonti del pensiero politico occidentale. Verso la metà del XVI secolo, con la formula “Servitù volontaria”, l’umanista Étienne de la Boétie, amico di Montaigne, definiva il fenomeno per cui uomini liberi si mettevano, senza alcuna costrizione, al servizio dei potenti. Ma, al di là della felicità della formula, si tratta dello stesso meccanismo con cui Hobbes e Rousseau giustificano il potere moderno. Per Hobbes, era la paura della guerra civile, il bisogno di sicurezza, a spingere gli individui a cedere al sovrano la propria libertà. Nella sua autobiografia in latino, Vita carmine expressa, Hobbes ricorda di essere nato all’insegna della paura, quando la madre lo partorì prematuramente alla notizia dell’arrivo in Inghilterra dell’Invincibile armata spagnola: “E fu così che la mia cara madre / partorì due gemelli, me e la paura”. Per Rousseau, invece, i cittadini alienavano liberamente i propri diritti esclusivi a favore della “volontà generale”, insomma di un bene comune. Si noti che per Rousseau i cittadini non si auto-governano, non avendone la capacità (“La moltitudine è cieca”), ma eleggono i migliori di loro perché amministrino la cosa pubblica. In fondo Rousseau è più ambiguo di Hobbes, perché fonda il governo di pochi sulla libertà e il consenso e non sulla pura e semplice paura del conflitto. Insomma, per Rousseau, i molti devono legittimare i pochi. Questa, sfrondata dalle chiacchiere sulla democrazia diretta, è l’idea di governo dei Casaleggio, Sr e Jr. Dietro l’apparenza della trasparenza, dell’onestà, delle consultazioni online c’è la realtà di registi occulti che governano il movimento, il Parlamento e quindi l’intera società.
Se Hobbes e Rousseau cercano di rispondere al “perché”, la scienza politica e sociale italo-tedesca tra Otto e Novecento (Pareto, Mosca, Michels, Weber, Von Wiese, ma anche Gramsci ecc.) si occupano di “come” i pochi governino i molti. La teoria di Pareto, secondo cui sono i “migliori” a governare in ogni campo non sembra accettabile (basta pensare, appunto, a Salvini, Di Maio e soci). Più convincente è l’idea, di Mosca e Weber, che elezioni e Parlamento servano a selezionare le élite dirigenti che, ovviamente, cambiano a seconda del vento politico. Ma dalle élite non si scappa. Persino Hannah Arendt, la teorica politica più libertaria del XX secolo, vedeva nella democrazia dal basso un faro del pensiero politico, ma riteneva anche che si fosse incarnata solo in realtà sporadiche, limitate e transitorie. Dopotutto, la celebre democrazia ateniese del V secolo a. C. non solo escludeva meteci, donne e schiavi, ma, nel momento di massimo fulgore, era guidata dalla regìa sapiente del nobile Pericle.
Una società complessa non può auto-governarsi. La possibilità di limitare l’inevitabile tendenza al dispotismo dei governanti è nel pluralismo non solo dei poteri, ma delle élite. E quindi nel loro ricambio. La cosiddetta modernità ha limitato il ruolo delle élite ascrittive, tali cioè per diritto di nascita, ma ha favorito, almeno in teoria, la moltiplicazione di quelle acquisitive – in ogni campo, economia, educazione, cultura e ovviamente amministrazione della cosa pubblica. La teoria classica delle élite può sembrare cinica, ma è sostanzialmente descrittiva, cerca di raffigurare le cose come sono. E quindi non può che essere detestata dagli alfieri del “cambiamento”, i quali si propongono a parole di abbattere le élite tradizionali solo perché vogliono governare al loro posto.
Leghisti e grillini sono la nuova élite del potere. Che i primi amino farsi raffigurare tra grigliate e salamelle e i secondi esibiscano un’incompetenza a prova di bomba (penso non solo ai ministri ma alle sindache di due città importanti come Torino e Roma), che insomma si travestano da “popolo” per mascherare il fatto che sono i pochi che governano i molti, ricorrendo ai classici strumenti del dispotismo, l’imbonimento e la paura, tutto ciò non cambia i termini della questione. Sono la nuova élite del potere. Sul loro carro, di conseguenza, saltano tutti quelli che odiano le vecchie élite perché non hanno ottenuto da quelle il dovuto riconoscimento. Un circo che comprende personaggi del Grande Fratello, ballerine, giornalisti assatanati, filosofi da bar, economisti auto-nominatisi tali, ex situazionisti divenuti manager televisivi – e ovviamente tutti quegli impiegati, professori di liceo, informatici e studenti fuori corso a cui Lega e soprattutto M5s hanno dato la possibilità di entrare in Parlamento con i relativi privilegi. Un’élite abbastanza abietta, perché nega di essere tale, mentre si fa applaudire dal popolo del nord e del sud, convinto che quella lo governi in suo nome. Per dirla con Karl Kraus si tratta in definitiva di quegli “agitatori che fanno credere al popolo di essere stupidi come lui, perché quello si illuda di essere intelligente come loro”.