Fermare l'Alta velocità tra Maduro e l'Italia
Dalla Tav al Venezuela: non si può essere complici di chi sta trasformando il nostro paese nella barzelletta d’Europa
Dimmi che Venezuela hai in mente e ti dirò che politico sei. L’incredibile decisione del governo italiano di non riconoscere Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela – la scorsa settimana l’esecutivo italiano ha posto il veto al riconoscimento collegiale del nuovo governo da parte dell’Unione europea e ieri si è esplicitamente rifiutato di condannare Maduro nella stessa giornata in cui sono arrivati i riconoscimenti di legittimità per Guaidó da tutte le principali cancellerie europee – offre all’osservatore diversi spunti di riflessione che meritano di essere messi in fila.
Il primo spunto riguarda la gravità di una scelta di campo internazionale che colloca la settima potenza industriale del pianeta all’interno di un fronte politico non più solo sovranista ma apertamente anti occidentale e a tratti anti atlantista, più vicina cioè alla Russia che all’America, più vicina alla Cina che alla Francia, più vicina alla Turchia che alla Germania, più vicina alla Siria che alla Gran Bretagna, più vicina all’Iran che alla Spagna. Un governo barzelletta riesce a non sembrare credibile anche quando prende posizioni serie, anche quando costringe il presidente della Repubblica a dissociarsi pubblicamente dal presidente del Consiglio facendo appello “a una condizione che ci richiede senso di responsabilità e linea condivisa con partner europei” e ricordando che in questa “scelta non vi può essere né incertezza né esitazione”.
Ma a testimoniare che la situazione oggi, al contrario di quanto sosteneva Ennio Flaiano per la sua Italia, non è seria ma è grave, c’è un ulteriore spunto di riflessione da mettere a fuoco, che riguarda la dialettica che esiste all’interno del governo su alcune questioni che in teoria dovrebbero essere cruciali. Vale quando si parla di Venezuela, naturalmente, ma vale anche quando si parla di alta velocità, quando si parla di giustizia, quando si parla di infrastrutture, quando si parla di crescita, quando si parla di lavoro, quando si parla di tasse, quando si parla di sviluppo. Su molte di queste partite la Lega di Matteo Salvini ha scelto di marcare una distanza dal Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio e di Alessandro Di Battista e anche sul Venezuela il ministro dell’Interno ha usato parole che nessun grillino ha finora utilizzato, ricordando che nel regno del madurismo “migliaia di italiani soffrono da anni la fame e la paura imposti dal regime di Maduro” e che “prima tornano diritti, benessere e libertà in Venezuela, meglio sarà per il popolo”. Di fronte a queste parole si potrebbe essere tentati dall’avvicinare le mani e indirizzare un applauso verso il Capitano ma la verità è che il dissenso verbale mostrato da Salvini su alcuni dossier cruciali per l’Italia è un’aggravante e non un’attenuante per la Lega. Lo è perché Salvini – quando parla di garantismo, quando parla di infrastrutture, quando parla di trivelle, quando parla di termovalorizzatori, quando parla di grandi opere, quando parla di dittature – manifesta sì di avere un’alfabetizzazione maggiore rispetto a quella mostrata dagli sgrammaticati a cinque stelle ma manifesta anche di non essere intenzionato a difendere le proprie idee – con Salvini non ci azzardiamo a dire ideali. La gravità delle posizioni del Truce, Venezuela compreso, è – per capirci – che il ministro dell’Interno è un leader di governo e non di opposizione e ogni sua forma di dissenso confinata sul terreno arido delle parole volanti indica un lato ancora più mostruoso del populismo leghista: la quantità sterminata di valori non negoziabili che Salvini è disposto a negoziare per non perdere il potere acquisito, per guadagnare consenso, per difendere le sue indifendibili posizioni sull’immigrazione. E sulla base di questo principio diventa negoziabile lo stato di diritto, diventa negoziabile la riforma della prescrizione, diventa negoziabile l’ambiente, diventa negoziabile un termovalorizzatore, diventa negoziabile la democrazia rappresentativa, diventa negoziabile la vita degli italiani in Venezuela, diventa negoziabile la difesa delle imprese, diventa negoziabile la tutela del nord produttivo, diventa negoziabile la lotta contro la pressione fiscale, diventa negoziabile l’alta velocità (“La Tav è solo un buco inutile. Chi se ne frega di andare a Lione”, ha detto ieri il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli). Il problema dunque non è solo che l’Italia sul Venezuela sta dalla stessa parte di chi, come la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia, difende un dittatore come Maduro che ha affamato il suo popolo. Ma è che in Italia esiste una forza di governo che ha scelto di essere sottomessa, e non solo alleata, a un partito come il Movimento 5 stelle che da anni sogna di trasformare l’Italia nel Venezuela d’Europa. E sia che si parli di dittature, sia che si parli di infrastrutture, sia che si parli di economia, sia che si parli di crescita la scelta per Salvini oggi in fondo è semplice: continuare o no a essere complice di chi sta trasformando l’Italia in un paese barzelletta.