Prima il Piemonte, poi...
Salvini à la guerre in Abruzzo, per strappare col centrodestra a Torino. Molinari benedice il civico Damilano
Roma. Non è che non ci tenga a vincere. È solo che vincere, per Matteo Salvini, non significa, se non incidentalmente, consegnare tre regioni del centrosud a un presidente di centrodestra. Quando ai suoi, sondaggi alla mano, ripete “sfondiamo, sfondiamo”, il ministro dell’Interno ha in mente un altro tipo di trionfo: monopolizzare il centrodestra, fare crollare il tavolo ormai traballante su cui si reggono a fatica gli equilibri tra il Carroccio e Forza Italia, e passare all’incasso. Se andrà così in Abruzzo domenica prossima, se anche Sardegna e Basilicata il 24 seguiranno l’andazzo, allora il primo sgarbo è già pronto. “Arrivare a imporre un nostro nome in Piemonte? Speriamo”, sorride sardonico, mentre chiama l’ascensore che lo porterà al suo ufficio al quinto piano di Montecitorio, Marzio Liuni, leghista di Novara. Nel quartier generale del Carroccio a Torino, ormai, il nome giusto è già stato trovato, e quando lo si pronuncia davanti a Riccardo Molinari, che della Lega sabauda è il leader assoluto, la risposta è chiara: “Quello di Paolo Damilano”, dice il capogruppo del Carroccio alla Camera riferendosi all’imprenditore vinicolo torinese, “è un nome autorevole, sicuramente gradito”.
Poi, però, Molinari ci tiene subito a precisare: “In ogni caso, il candidato su cui puntare, per noi, resta Alberto Cirio”. È l’europarlamentare di Forza Italia, stimato da Antonio Tajani, l’uomo su cui, da mesi, è stato trovato un accordo tra Salvini, Berlusconi e Meloni in vista delle regionali piemontesi. E tutto sembrava ormai scontato, se non fosse che poi, intorno al 41enne avvocato di Alba, si sono addensate le ansie per l’inchiesta che lo coinvolge – peculato: il solito caso di “rimborsopoli” piemontese – e, sulla scia di queste, anche quelle sulla sua reale capacità di leadership.
E insomma vuoi per il rischio di trovarsi a dovere fare subito i conti con la Procura, vuoi perché in parecchi, nella stessa Forza Italia sabauda, non paiono volersi rassegnare al ruolo di gregario, Cirio deve ancora cominciare a fare, davvero, campagna elettorale. “Aspetta semplicemente che arrivi l’investitura ufficiale della Lega”, si sfoga chi gli vuole bene, già sapendo, però, che quel riconoscimento non arriverà. Proprio perché, nei piani di Salvini, c’è appunto la voglia dello strappo. Forzare la mano agli alleati, proporre lui un nome alternativo a Cirio e poi, semmai, lasciare che sia Forza Italia a intestarsi la responsabilità di una rottura.
E d’altronde è da settimane che a Via Bellerio si ponderano le virtù di Damilano. Lui, al momento, attende: pretende di essere non solo il candidato di Salvini, ma di venire legittimato dall’intero centrodestra locale. Noto a tutti, in Piemonte, per i suoi vini, da sempre capace di coltivare buone relazioni trasversali che gli sono già valse la presidenza del Museo del Cinema, apprezzato da Giancarlo Giorgetti che ha già avuto modo di conoscerlo e stimato anche negli ambienti meloniani per via di una lunga amicizia con Daniela Santanché, Damilano è il profilo che Salvini stava cercando. Un civico, cioè, che non faccia ombra al segretario regionale Molinari e che, soprattutto, risulti gradito anche alla Torino bene da sempre moderata e già in sofferenza per i postumi della sbornia grillina del 2016. Sarebbe un piccolo ma significativo passo (“Una prova generale”, dicono i leghisti) verso la costruzione di un Carroccio definitivamente egemone nel centrodestra.
Per fare sì che il piano possa essere messo in atto, però, c’è bisogno di una dimostrazione di forza in queste settimane. Ed ecco che allora si spiega anche questa bislacca, straniante campagna elettorale abruzzese, con Salvini sempre attento a promuovere il suo partito, ma non il candidato governatore che il suo partito sostiene. “Un voto alla Lega è un voto per il buongoverno”, ripete Salvini dai palchi di Teramo e dell’Aquila, mentre Marco Marsilio, senatore romano di FdI ripescato come unico profilo spendibile gradito alla Meloni, se ne sta lì sul palco, in disparte, a sperare (spesso invano), di godere dei suoi quindici secondi di celebrità. “I sondaggi ci danno intorno al 25, in Abruzzo, Forza Italia non arriva neppure al 10”, esultava giorni fa, con gli attivisti teramami, il segretario delle Lega abruzzese Giuseppe Bellachioma.
Poi toccherà alla Sardegna, dove il candidato Christian Solinas, leader del Partito sardo d’azione, è formalmente espresso da Salvini. E, sempre il 24, sarà anche il turno della Basilicata, dove un accordo definitivo sull’aspirante governatore ancora non c’è. “Lì i sondaggi ci danno al 17 per cento, dieci punti sopra al risultato del 4 marzo”, sorride ora Liuni, mentre stringe nelle mani le liste dei candidati lucani. “Vado a controllarli”, dice. “Bisogna farsi trovare preparati”.